In questa storia (lunga! Non è un albo illustrato!) c’è Jole che deve tornare a casa da sola da scuola e c’è la sua nonna che non deve perdersi nell’anestesia a cui deve sottoporsi per curare un femore rotto.
In mezzo una mamma preoccupata e una strada del ritorno che – come le fiabe ci raccontano – non è mai uguale alla strada di andata.
Silvia Vecchini dà l’ennesima prova della sua capacità unica di immedesimarsi nelle persone e ci dona un ritratto di una nonna e di una nipote che non potrebbe essere più vivido.
Guidati da un sottile suggerimento cromatico, ci addentriamo nei pensieri di Jole (neri) e poi in quelli della nonna (rossi) e infine sbirciamo una zona grigia o meglio una zona azzurra dove Jole e la sua nonna si incontrano, una stanza dentro il tempo in cui si ritrovano insieme.
Al di là della scrittura della Vecchini, ricca, mai scontata, capace di intrecciare pensieri profondi a vicende quotidiane senza alcuna forzatura, questo racconto è un’intensa storia sul legame unico che i nonni instaurano con i propri nipoti.
«Non mi piace. Che Jole è in gamba lo so da me. Ma non mi piace che sia io il motivo per cui lei si debba arrangiare. I bambini dovrebbero trovare qualcuno fuori dal cancello della scuola e tornando a casa dovrebbero trovare nel piatto qualcosa di buono da mangiare. E poi qui non c’è nulla da fare. Insomma, mi aggiusteranno quest’osso e poi mi sveglierò. Tutto qui»
Jole è preoccupata, ma cerca di tenere a bada la paura:
«Mi trovo un po’ piccola. Faccio scivolare una bretella dello zaino e infilo la mano nella tasca bassa, dove la mamma ha messo le chiavi. Le prendo e le tengo in mano. Mi fanno sentire grande»
Il solito percorso però è chiuso per lavori, le chiavi di casa cadono in una pozzanghera, mentre la nonna conta, conta fino a perdere coscienza.
Così mentre la nonna sale su, attraverso i fumi dell’anestesia, Jole cade giù in una pozzanghera fino a un mondo sotterraneo di carrolliana memoria: riusciranno entrambe a ritornare nella superficie delle cose?
Questo movimento dispersivo sembra quasi allontanare questa nonna e la sua nipotina, ma è invece la possibilità per entrambe di sentire la forza di un legame che le àncora al mondo: un fortissimo legame di affetto, l’appiglio su cui entrambe faranno forza per ritornare lì dove sono attese
Il mondo acquatico di sotto è un mondo capovolto che richiama letterariamente il paese delle meraviglie che si attraversa sempre attraverso uno specchio (per Jole, in questo caso, si tratta di uno specchio d’acqua!): è un mondo alla rovescia confuso, eccentrico dove tensioni psicologiche, profonde paure e desideri si intrecciano, si ingigantiscono o si rimpiccioliscono… dove ci sono omini dei semafori che ti prendono per mano, canarini in libera uscita dalla loro gabbia che cantano le 413 parole per dire “cielo”, cani gentili che si fanno cavalcare…
Eppure è proprio in questi luoghi in cui spesso è possibile giungere ben più che metaforicamente al cuore della questione:
«“Devo tornare, voglio sapere se mia nonna si sveglia!” […] “La talpa dagli occhi chiusi si avvicina e mi tocca una caviglia con delicatezza: “Ecco il pensiero che ti ha fatto precipitare qui! Non devi aver paura. Sai, le domande camminano in profondità e sbucano, a volte, quando non vuoi. Non vedono bene proprio come me. Scavano tanti cunicoli che si perdono. E la terra Sopra può cedere”»
I bambini tuttavia, se sono soli, hanno la capacità innata di districarsi in mondi magici dove paura e realtà condividono lo spazio, per Jole significherà affidarsi ad una sua grande paura, quella dei cani, o meglio ad una sua grande intuizione e ad un cane che la riporterà la dove deve essere. A casa e poi in una stanza azzurra dove la nonna e Jole possono ritrovarsi ancor prima di vedersi.
La storia è ricamata con cura e ricchezza, un racconto polifonico che rende ragione di un legame tra i più potenti al mondo che non sparisce neanche quando si è soli e che è così semplice che ama affidarsi ai fili di cotone:
«Quando sarà più grande le svelerò il segreto del filo di cotone. Ecco, devo ricordarmi questo»
Arianna Vairo fa un lavoro perfetto, dove sogni, fiabe e realtà si fondono con armonia, dove i pensieri, sensazioni e sguardi accadono con semplicità, dove i fiori delle zucchine ardono e i piselli rasserenano.
Una fiaba e un’avventura per tutti.
Alice Coppini in La mia strana amica racconta una storia che pare nascere da un topos, apparentemente opposto a quanto affermato da Jole, che è quello della incomunicabilità generazionale.
Emma, tutti i giorni alla fine della scuola, va a casa della nonna Lina, è bello, ma in fondo tra la bambina e la nonna c’è una sorta di incomprensione: la piccola desidererebbe dedicarsi ai videogiochi, la nonna invece – che li vede come il fumo negli occhi – le propone attività quali guardare fuori la pioggia che cade, frugare tra i bottoni…
«“No nonna è noioso, è davvero noioso. Che schifo!” “Va bene adesso basta Emma trovati da sola qualcosa da fare e smettila di essere così insolente”»
Questo piccolo scontro conduce Emma negli anfratti nella soffitta (altro luogo per eccellenza dove accadono magie!) dove, tra le mille scatole, ne trova una piena di fotografie tra cui spicca il ritratto di una bambina. Aggiungete, a questo punto, un fulmine e la luce che salta ed ecco che un incantesimo catapulterà Emma, nella stessa casa, ma in un tempo che non è più il suo.
Dopo il primo spaesamento Emma incontra una bambina, Andreina, che sembra essere esattamente quella della foto in bianco e nero ritrovata nella soffitta della nonna. In attesa di trovare un aiuto e una soluzione per ritornare al “suo” tempo, Andreina decide di trascinare Emma nella sua giornata nell’attesa del sopraggiungere dei genitori.
Il contesto storico in cui ci ritroviamo è quello degli anni della dittatura fascista in Italia: Andreina vive in una casa-fattoria insieme ai suoi fratelli e la sua giornata è scandita dalla raccolta delle uova nel pollaio, dal lavoro nelle risaie, dal gioco tra i campi con palle di stracci e giri in bicicletta nella periferia per nulla urbanizzata in cui vive.
Emma sente tutta la distanza di una vita che non riconosce come appartenente all’infanzia: il lavoro, il cibo scarso, nessun dolce, niente giocattoli… addirittura una tessera (la carta annonaria) che stabilisce che cosa poter comprare. Dall’altra parte Andreina più volte fraintende Emma, tacciandola di essere una bambina viziata, pigra, di non aver voglia di impegnarsi niente.
Giorno dopo giorno tuttavia queste due bambine iniziano intendersi, a immaginare e ad accettare il mondo dell’altra che evidentemente è molto diverso: una conoscenza reciproca che mette in luce il valore di entrambe.
Quando le tue ormai si intendono a meraviglia una sessione di fotografie di famiglia, organizzata proprio nel cortile della famiglia di Andreina, fa sì che Emma comprenda che quella bambina, Andreina-Lina, non è altro che sua nonna!
Allo scattare della fotografia Emma ritornerà al suo tempo, anche se il finale farà intuire al lettore che il viaggio possa essere stato non solo un sogno…ed Emma e la nonna avranno la possibilità di riscoprirsi con curiosità.
Il fumetto è ben narrato, ben curato nel lettering e nell’organizzazione dei fumetti e delle didascalie (pochissime). Lo sviluppo narrativo è lineare e ricco di ironia e divertimento e le immagini sono chiare e accoglienti. L’elemento storico è ben ricostruito e regala un’istantanea di un periodo storico non poi così lontano, ma che ai bambini contemporanei apparirà una sorta di mondo magico.
Una bella storia che evita con molta intelligenza di cadere nella pesantezza e che racconta di come l’infanzia sia fatta di tanti piccoli momenti che cambiano, ma che in fondo guidano attraverso le stesse avventure.