Misha. Io, i miei fratelli e un coniglio è un libro molto interessante, vincitore del premio Andersen per la fascia 6-9 anni, che potrebbe però correre il rischio di essere relegato all’interno di una serie di libri tematici, perché lo sfondo di questo romanzo, scritto da Edward van de Vendel sulle parole di Anoush Elman, è quello di un’esperienza drammatica come solo può essere la fuga da un Paese dove si è perseguitati alla ricerca di una nuova casa.
Ciò che ho molto apprezzato è che questo antefatto si colloca effettivamente solo sullo sfondo, trasformandosi nel racconto e nella rielaborazione del vissuto di una bambina, impegnata nella costruzione e ricostruzione della propria identità.
Questo slittamento è stato possibile innanzitutto grazie all’affidamento delle parole e dei ricordi ad uno scrittore di vaglia come Edward van de Vendel che quindi, già in partenza, ha definito questa storia non solo come puro reportage o memoriale.
Roya, la protagonista, è una bambina di 9 anni afgana che vive con i suoi genitori e i suoi 3 fratelli in Olanda.
«Era la prima sera nella nostra casa. I miei tre fratelli più grandi parlavano uno sopra l’altro e io intanto guardavo il piatto che avevo davanti, la grande finestra, e le pareti. A volte sono un po’ lenta, penso; perché solo in quel momento l’ho capito davvero: potevamo rimanere. Non dovevamo tornare nel paese dal quale venivamo. Avevamo finalmente una cucina che era solo per noi, le nostre camere da letto, la nostra doccia, il nostro gabinetto e persino un giardino, tutto nostro. Ma non mancava qualcosa?»
A partire da questa breve presentazione si dipana un racconto familiare che si innesca a partire dalla domanda di Roya: ma non mancava qualcosa?
La stabilità si trasforma simbolicamente nel desiderio di avere un animale domestico e così Roya insieme ai suoi fratelli acquista un piccolo coniglio nano, Misha.
L’arrivo del coniglio a casa pone al centro la questione della cura (bisogna prendersi cura di Misha e dei suoi bisogni), ma diventa anche l’occasione perché Roya possa raccontare la sua storia a se stessa attraverso l’interlocuzione di Misha: racconto a lui perché ne ho bisogno ed è meno doloroso per me ascoltare la mia storia, se la racconto a te.
Non siamo, però, di fronte a un romanzo-resoconto incentrato sulla fuga dolorosa e drammatica dall’Afghanistan, poiché il cuore sono le vicende quotidiane di questa famiglia che va a scuola, che lavora, che cucina, che gioca col coniglio, che incontra gli amici…
In questo contesto semplice germoglia la storia personale di Roya che proprio grazie a Misha si permette di riguardare al suo passato e di farci i conti.
«Io sono Roya e ho nove anni. Sono nata in Afghanistan. Lì avevamo una casa nella capitale, con un giardino pieno di rose e colombi sul tetto, ma non ricordo più molto. Quando avevo tre anni ci siamo messi in viaggio. Papà insegnava alle bambine, che era proibito. Aveva anche pensieri liberi, e anche quelli erano proibiti. Non so di preciso cosa siano i pensieri liberi, ma secondo me la mamma la pensa come papà, quindi anche lei aveva pensieri liberi, che era pericoloso, perché il governo non lo permette»
Il racconto e le descrizioni relative alla vita di questa famiglia sbaragliano alcuni stereotipi sui “migranti”: la famiglia di Roya non è povera, non è piena di problemi, non è emarginata, non è discriminata, anche se non si tacciono alcuni problemi di pregiudizio… è una famiglia normale. Nulla nel racconto, quindi, si compone con l’obiettivo di commuovere, sdegnare o far sentire in colpa il lettore. È solo la storia di Roya che fa i conti e fa pace con il suo passato che è doloroso come quello di tanti bambini, non solo di quelli che sono dovuti scappare da casa.
È come se l’arrivo di Misha, all’inizio del romanzo, mettesse davanti agli occhi dei lettori un nodo che va sbrogliandosi di capitolo in capitolo.
Misha un giorno, infatti, fa la pipì, accoccolato sulla pancia della mamma di Roya, e la rifà, una notte, nel letto del secondo fratello Hamayun. Questi due episodi apparentemente trascurabili provocano Roya a pensare ai luoghi in cui ci si sente a proprio agio a tal punto da rilassarsi completamente.
Questo è il nodo che interroga la bambina che nel corso della narrazione capirà che solo un racconto di sé innanzitutto a se stessa e poi ai familiari e agli amici permette di essere liberi, a casa e in pace. La comprensione e la risposta a questa domanda esistenziale non avviene per una riflessione intimistica, ma emerge nell’ordinario caos della vita di tutti i giorni in una famiglia numerosa: Misha scappa dalla gabbia, per scuola c’è una ricerca da preparare… e questo si intreccia al racconto della fuga dall’Afghanistan che Roya non ricorda e che tutta la famiglia ricostruisce per lei in episodi tra il comico e la tragedia, tra il riso e il pianto.
«“Noohoo”, dissi, «è che non resta più niente. Avevamo una foto, ma l’abbiamo dovuta bruciare. E Hamayun doveva sempre portarmi sulle spalle e però io ero pesante e lui era ancora piccolo, e Navid di mattina puliva i gabinetti e papà lavorava e la mamma lavorava, e Bashir era scappato già prima, ma per lui era ancora più difficile, perché era tutto soo-l00». La maestra naturalmente non capiva niente, e neanch’io. In realtà pensavo di essere triste perché avevamo quasi perso Misha, invece continuavano a venirmi in mente tutti quei ricordi del nostro viaggio. La maestra mi accarezzava la schiena. Non diceva niente, quindi forse un po’ capiva»
I rapporti fraterni, narrati in queste pagine sono edificanti e commoventi: i fratelli si aiutano, si sostengono, sdrammatizzano, corrono in aiuto, si fanno coraggio... ci sono!
La scrittura è una buona scrittura: scorrevole, intima ma equilibrata, rispettosa e accurata. Intime e ben scelte le immagini-ritratto di Annet Schaap che mostra l'indubbia capacità di cogliere la complessità delle emozioni in attimi fuggevoli.
La storia di una bambina come tante e come nessuna che grazie ad un coniglio, stringe al cuore il suo dolore. Una lettura che consiglierei, slegata da ogni secondo fine tematizzante, dai 10 anni.