Oggi vorrei confrontarmi con voi intorno a due libri recenti che spesso vengono citati sul tema adottivo: Sorpresa nel bosco e Fili. Il primo mi ha convinto da subito mentre l’altro - che noto essere molto citato sul tema - secondo me, ha dei punti critici.
Sorpresa nel bosco è un libro scritto da una coppia di genitori adottivi, Rosita e Giorgio, per raccontare l’adozione del loro bimbetto, Davide, che si è scoperto avere una sindrome gravissima (AHDS), per quale stanno impegnandosi in un’opera di divulgazione e informazione. La coppia di autrice e illustratrice che ha preso in mano la storia non si è lasciata trasportare dal sentimento pietistico, ma ha raccontato una storia di accoglienza affettuosa, che potrebbe calarsi oggigiorno nella storia di moltissime famiglie adottive che accolgono bambini con qualche bisogno speciale. La consapevolezza di questa situazione delicata non è però trattata nel testo come un limite, un problema, una deficienza del figlio, ma come una sua caratteristica, speciale, rara e unica.
«In una notte illuminata dalla luna, un filo sottile scese da una stella». La casa di Mamma e Papà orso riceve un dono: un cucciolo, anzi il cucciolo che stavano aspettando da tempo.
«[Mamma Orsa ndr.] annusò l’aria e disse: “È il nostro cucciolo. Senti? Profuma di stella!”». Il piccolo è un sorridentissimo pesce rosso, in una boccia di vetro. I commenti degli abitanti del bosco più o meno pertinenti e gentili si sprecano, ma volete sapere cosa risponde il suo papà?
«“Da quando in qua due orsi adottano un pesce?” brontolò il gufo. “Da quando il pesce li ha scelti!” bramì Papà».
Questo ribaltamento del pensiero generalista che vuole che siano i genitori a scegliere il figlio, i genitori ad attendere, i genitori a desiderare è, a mio parere, molto importante: il figlio è innanzitutto un bambino a cui si cerca una famiglia, è il figlio che ad un certo punto chiama, è lui che ad un certo punto è come se scegliesse la sua famiglia, lo fa semplicemente essendo se stesso. Dopo un po’ di tempo di assestamento, immaginiamo, gli orsi partono e sapete dove vanno? «“Tuffooo!”». In un posto dove il loro piccino stia bene, meglio, in un bel lago dove forse i genitori non saranno proprio a loro agio, ma dove il pesciolino può nuotare senza il limite della sua boccia. Anche il bosco li raggiungerà e, accettando la sfida della diversità del piccino, capirà forse un po’ di più di quel pesciolino rosso dagli occhi che ridono.
La storia è commovente e molto interessante in alcuni passaggi: la consapevolezza della famiglia che nasce subito e si oppone alle parole vaghe e non rispettose fiorite tutto intorno, la positività capace di accogliere il figlio per come è, ma anche di rimanere salda e mai ostile verso il limite delle persone attorno, sfidandole con la loro unicità. Al centro rimane quel pesciolino adorato, un personaggio muto capace di cambiare tutto.
Il secondo testo è invece Fili di Torill Kove, regista canadese di origini norvegesi che dedica questo libro alla maternità. Lo stile molto asciutto e piatto non mi ha convinto ed è forse questa la ragione per cui inizialmente non mi sono avvicinata cordialmente al testo, poi dopo averne letto lodi sperticate ho preso in mano il libro.
«Che cosa cerchiamo di afferrare? Desideriamo qualcosa? Forse un amico o qualcuno a cui voler bene, un’esperienza che ci emozioni, o un sentimento speciale». Un gruppo di adulti viene rappresentato sotto un cielo da cui pendono numerosi fili, e tutti cercano di afferrarne uno. Una ragazza ci riesce, si attacca ad un filo rosso che di colpo la solleva e la tira, lontano. È una bambina che tira quella mamma ed è sola, desolatamente sola, così che la donna decide subito di prendersi cura di quella creatura.
«Con me dovrai sentirti al sicuro, così potrai imparare a stare sulle tue gambe».
La vicenda vede la bambina crescere legata alla madre da quel filo, la vedrà lanciarsi nel mondo e poi tagliarlo e tenerlo nel cuore, pronta ad acchiappare il suo filo sospeso nel cielo.
Le citazioni, i rimandi e in generale le figure che appaiono in questo albo sono abbastanza banali (il filo rosso, il filo che tira…), ma efficaci.
Il dramma, secondo me, è che trattando di maternità il testo non abbozzi che questa è innanzitutto espressione di una relazione. La maternità si proclama qui capace di “generare salvezza” senza nessuna relazione che preceda e sostenga, la relazione si configura solo come univoca. Certo i libri sulla mamma sono spesso focalizzati sulla figura femminile, ma l’attesa adottiva - a differenza di quella “naturale” - vede una posizione speculare tra padre e madre. È una peculiarità su cui non sorvolerei.
Secondariamente: il movimento della madre è certamente orientato nel verso giusto, tirata da una bambina che la chiama a sé, ma nell’incontro non vi è un riconoscimento dello status di madre e figlia, ma piuttosto una scelta che sembra quasi “assistenzialista”: «credo proprio che qualcuno dovrà prendersi cura di te e volerti bene».
La mamma è definita dal suo egotismo: io posso fare questo per te, io so quali sono i tuoi bisogni… l’orizzonte di mossa della figlia sembra limitato - seppur vasto - a quello che la madre immagina, è lei l’unica ragione del cambiamento e della sua felicità. Eppure, quanto più i genitori ricevono nella loro genitorialità e quando è necessaria una famiglia, una comunità per crescere e imparare a voler bene!
Le immagini che seguono sono molto toccanti e sembrano rendere visibile quel timore che tra genitori e bambini c’è inizialmente, quel rispetto timoroso della diversità dell’altro, ma le parole non sono uguali a niente e io ho l’impressione che la retorica voglia sovrastare alcune debolezze significative.