Se riuscirete a leggere Il ragazzo dell’ultimo banco di Onjali Q.Raúf come l’avventura di un gruppo di amici, impegnati nel prendersi cura gli uni degli altri, potrete godere di questo romanzo e della genuina voce che ve la racconta. Trasformatela in un manifesto-critica sulle politiche per i rifugiati e avrete rotto l’incantesimo, rendendo la storia didascalica, scontata e banalmente naïf.
La storia infatti tocca un tema quotidianamente caldo, quello dei rifugiati, ma offrire questa lettura ai ragazzi con l’intento di suggerire un atteggiamento politico, rischia di svilire una storia spontanea e forte.
La voce di una bimba di 9 anni, il cui nome scopriremo solo poche pagine prima della fine, racconta la quotidianità della sua vita fatta di dolori (un papà morto all’improvviso e una mamma impegnata tenacemente a godere della vita, che è bella), di scuola e di amici. E proprio in classe accade quello che un giorno innesca una grande avventura: l’arrivo di Ahmet.
L’isolamento, il desiderio di diventare amici e la scoperta progressiva di una storia particolare e dolorosa: Ahmet è siriano, è fuggito dalla guerra e ha perso i suoi genitori. Il gruppo di amici si ingegna come può (con piani “migliori del mondo”) per fare sentire il proprio amore all’amico. Ahmet, infatti, come ogni “imprevisto” è capace di scatenare la reazioni più diverse e tra bulli, risse, piante che crescono se si parla loro, melograni e frutti con adesivi, si svelano le posizioni intime del cuore.
La narrazione focalizzata e in prima persona è gioiosa e infantile: offre ai lettori le reali percezioni della protagonista. Ad esempio, non ci sono descrizioni esplicite delle nazionalità dei bambini ma sappiamo invece i loro gusti in fatto di sticker e caramelle, le donne musulmane colpiscono per gli sbrilluccicanti veli e per le spille preziose con cui si adornano il capo. Della stessa protagonista scopriamo solo a pagina 195 che è per metà indonesiana e per metà austriaca. Il romanzo è popolato da personaggi tratteggiati sommariamente e la cui caratterizzazione è filtrata dalla percezione di cosa è significativo: ai bambini di 8-9 anni in fondo sono queste che interessano e che devono interessare.
Gli stessi piani per aiutare l’amico rispondono a dinamiche affettive e spontanee, probabilmente poco efficaci, ma certamente intrepide e significative. L’avventura è assicurata e implica una fuga, una irruzione a Buckingam Palace e anche il tè con una famosa regina. L’happy end forse cede più ad un augurio che alla verosimiglianza, ma in ogni avventura che si rispetti il finale al caldo intorno ad una tazza fumante è il più auspicabile e scalda di rimando il cuore di lettori.
Certamente questo è l’atteggiamento che dobbiamo chiedere ai nostri bambini: quello di essere amici, di prendersi cura gli uni degli altri, di interessarsi al mondo e di non avere mai paura di chiedere aiuto ai grandi. Questo però non può diventare il manifesto dell’atteggiamento adulto, a cui si deve invece richiedere una intelligenza adeguata che tenga conto di tutti i fattori.
In questo senso l’impressione di una narrazione naïf è data da chi pretenda di riconoscere nel racconto la proposizione (o l’imposizione celata) di un modo di agire, invece l’autrice mostra una capacità genuina di immedesimarsi nei pensieri di un bambino di 8-9 anni con le sue paure, i suoi slanci a volte ingenui e il suo coraggio limpido e disinteressato. Per le ragioni che ho cercato di spiegarvi ho trovato superflue le appendici alle fine sul romanzo dedicati alla situazione dei rifugiati.
Una bella storia umana che coinvolgerà i coetanei della protagonista!
P.S. Come madre adottiva non posso non notare un uso improprio del termine “madre adottiva” riferito ad una persona che si sta prendendo cura di un bambino rifugiato mentre si sta cercando di rintracciare la sua famiglia di origine.