L’ultimo libro che arriva in Italia di Oliver Jeffers tocca a mio parere un tema molto interassante e controverso che interroga la modernità e gli uomini tutti.
Il fato di Fausto, traduzione fedelissima di un titolo originale The Fate of Fausto tira in ballo, fin dal titolo una questione non da poco: il fato o il destino.
A cosa tende l’uomo? Qual è l’orizzonte finale della vita?
A chi appartengo? A chi appartengono le cose, le creature, il mondo?
“Io ti appartengo” si dice alla persona che si ama, ma può una carne limitata, finita, mortale, contenere l’amore senza ridurlo, svilirlo, macchiarlo e ferirlo?
“Io mi appartengo” si sente gridare nelle piazze con una decisione quasi spiazzante.
Ma è così?
La dura e spesso ignorata verità è che nessuno si appartiene, nessuno ha potere su di sé fino in fondo, nessuno può decidere che il proprio cuore incominci a battere, nessuno in fondo può decidere che i fiori nascano o che un animale respiri. La vita è irriducibile, mantiene un’impertinente indipendenza che può essere ignorata o schiacciata con violenza e brutalità, ma che rimane agli occhi di tutti come monito. L’umanità la chiama libertà, pensiero, vita, anima, cuore, desiderio… in ogni caso ogni essere vivente custodisce una traccia che impedisce a chicchessia di poter rivendicare un possesso e non perché ci si appartenga, ma perché si appartiene a qualcosa di infinitamente più grande. Si appartiene alla vita, all’universo, a Dio ed è questa appartenenza che in fondo ci rende liberi da ogni altra schiavitù.
Ma questo groviglio di domande, pensieri, evidenze può interessare ai bambini? Certo, interessa tutti gli uomini ed infatti il genere letterario che Oliver Jeffers sceglie per raccontarci la storia di Fausto è la favola, un genere eterno: Il fato di Fausto. Una favola dipinta.
«C’era una volta un uomo convinto di possedere ogni cosa e per questo deciso a fare la conta dei suoi averi. “Tu sei mio, ” disse Fausto al fiore»
Le pagine bianche accolgono come un palcoscenico i diversi attori chiamati in causa, non c’è sfondo, non c’è contesto: la narrazione si colloca nell’atemporalità, a livello di comunicazione universale.
«“Sì,” disse il fiore. “Io sono tuo.”» e Fausto tronfiamente se ne appropria, strappandolo e acconciandolo nel taschino della propria giacca. La figura umana ha i tratti stereotipati del ditttore/viziato: i baffi (quasi) hitleriani, il vestito elegante, l’atteggiamento supponente e sprezzante, i gesti tracotanti e netti…
Il suo viaggio di conquista continua.
La pecora, l’albero, il lago cedono con poche proteste alla conquista di Fausto. Quando però l’uomo rivendica il possesso dell’immensa montagna, anche i lettori tentennano: come si può possedere qualcosa di così immenso? Ed, in effetti, la montagna sembra aver coscienza di sé.
«“No,” disse la montagna. “Io sono mia” […] Ma Fausto montò un tale pandemonio da non crederci, e mostrò alla montagna chi comandava»
Non sappiamo in effetti cosa Fausto fece, ma anche la montagna è costretta a piegare il capo. Uscendo fuori dalla favola, è evidente ad ogni lettore che il potere egotico dell’uomo investa senza rispetto anche luoghi e realtà immensamente più grandi lui: pensate all’equilibrio climatico!
Poi Fausto si rivolge al mare, «perché per lui una montagna, un lago, una foresta, un campo, un albero, una pecora e un fiore non erano ancora abbastanza».
Ma il mare, con la sua natura liquida e il suo pensiero profondo risulta un rivale più ostico della dura montagna: «“Tu non mi possiedi” […] “tu non mi hai mai amato”».
Ciò che il mare oppone a Fausto è un legame: non una rivendicazione di autopossesso, ma il desiderio di appartenere a qualcuno che ci ami.
«“Pesterò il mio piede e stringerò il pugno”», dice Fausto.
Fallo, dice il mare. E Fausto lo fa.
Come ogni favola che rispetti, alla conclusione della narrazione troviamo la morale che prende in prestito le parole di Kurt Vonnegut che racconta di un dialogo con un amico. Oliver Jeffers di questo episodio sottolinea un aspetto non scontato «la consapevolezza che io ho avuto abbastanza», una morale giusta e provocatoria che credo però vada esplicitata bene: ho ricevuto quello che il mio cuore desiderava e che continua a desiderare, qualcosa che non sta in niente di ciò che mi circonda, qualcosa anzi che condivido con tutto ciò che mi circonda.
Una lezione sull’egocentrismo umano, ma anche su ciò che rende umano e consapevole l’uomo: il desiderio.
È evidente un gioco dei colori che incomincia tra i toni del marrone, che aprono il risguardo iniziale, illuminati da un inchiostro fluorescente sui toni del salmone. L’incontro con il mare vede un virare verso i toni del verde e del blu, illuminati da un giallo vibrante che si conclude in ondeggianti risguardi.
Il libro è una vera e propria opera d’arte, per l’attenzione che l’artista ha posto in ogni dettaglio del libro: i risguardi marmorizzati sono stati creati da Jemma Lewis, il lettering è stato curato e composto nelle varie edizioni, per la composizione è stata scelta una font del 1945 (Chambord Maigre), l’edizione originale è stata fatta grazie ad una stampa litografica tradizionale a Parigi, dove potete ancora trovare qualche tavola in vendita.
Una favola per pensare, ad ogni età.