Oggi 21 marzo è il giorno che tradizionalmente inaugura la primavera e, da qualche anno, è anche il giorno dedicato alla celebrazione della poesia, proprio come se i fiori e il loro profumo si divertissero spensierati a bisbigliare spicci qualche conta divertente.
E noi oggi, in un mese che stiamo dedicando completamente al tema (avete letto e riletto tutti gli articolo dedicati?!), celebriamo la poesia nelle sue forme più primordiali e umane: le conte, le filastrocche e le ninnenanne.
Le raccoglie per noi Nico Orengo, poeta giornalista e scrittore, che nel 1972 firmò A-ulì-ulè con le illustrazioni essenziali di Bruno Munari, libro che, nel 2020, torna in una riedizione preziosa e fresca come se fosse nata ieri.
L’accoppiata Orengo-Munari potrebbe in un primo momento ricordare la celeberrima collaborazione Rodari-Munari, tuttavia se in quest’ultimo caso era evidente che Munari riuscisse a imbrigliare nelle sue linee e nei suoi colori l’incontenibile personalità di Rodari (avete visto questo volume a riguardo?) ciò che emerge in questa raccolta del rapporto Munari-Orengo è il passo indietro che il poeta fa, per lasciare spazio alla primordialità di queste rime e garbugli di parole, passo indietro che la poesia stessa pretende anche da Munari. Non è Nico Orengo che parla in queste pagine, sono i bambini che giocano con gli elastici per strada, la mamma che lava nel mastello con il figlio sonnolento sulla schiena, sono i mocciosi che giocano alla guerra con i bastoni e che si lanciano i sassi, la nonna che rammenda accanto al fuoco con il nipote nella culla di legno, la servetta che pulisce il pavimento e il nonno che insegna al nipote a usare il coltello nel bosco…
Troverete in queste pagine tutte quelle storielle in rima che vi (mi) raggiunsero durante l’infanzia attraverso strade che la letteratura e la poesia segnano senza quasi che ce ne si renda conto: impronte di parole e immagini lasciate da nonne, mamme, zie (il genere femminile è largamente protagonista di questa storia!) che impressionano i bambini in modo indelebile.
Le civette sul comò, la pecora nel bosco, Teresa Teresina, l’occhiolino bello, la bella bella piazza, l’uomo nero, le coscine di pollo, la staccia buratta…
La magia e il mistero di queste filastrocche e conte e ninnenanne (che in modo molto acuto, l’edizione segnala con effetti diversi del font in maiuscoletto, corsivo, tondo) è che la memoria le custodisce e la voce le ripete con un senso di magia legata al suono, senza quasi che il significato interessi questi testi recitati d’un fiato e ripetutamente.
Avete mai fatto caso a quanto spesso i contenuti siano poco adeguati alle angeliche orecchie dei bambini?! Sesso, violenza, guerra, rapimenti… Il suono, la rima, l’incalzante intrecciarsi di numeri, parole e immagini brilla fulgidamente nel suo valore apotropaico, vere e proprie formule magiche per far addormentare, per includere o escludere dal gioco, per scegliere l’eroe, per far girare la fortuna, per indirizzare la sfortuna, per accompagnare la palla che rimbalza sul muro e i cucchiai pieni di zuppa fino alla bocca.
La poesia (forse) nasce proprio così, celebrando il potere della parola che sa nominare le cose e che sa far cantare la voce anche quando è stonata.
Oggi leggere queste rime semplici e antiche (quante parole potrebbero sfuggirvi, figlie di dialetti lontani e legate ad oggetti scomparsi nel tempo…) è un’esperienza esaltante, giocosa, intrigante.
Leggetele ai vostri bambini piccoli (anche quelli appena nati!), giocate con loro e con il «tamburino di Battipaglia» e poi accompagnateli a fare la nanna. Riappropriatevi della forza del suono delle parole e della vertigine del ritmo.
Un libro primitivo, selvaggio, in movimento, vivo.
«ambarabà ciccì coccò: tre civette sul comò, che facevano l’amore con la figlia del dottore. Il dottore si ammalò: ambarabà ciccì coccò»