«Scovare un orso polare non dovrebbe essere tanto difficile. Basta seguire le tracce. Mio padre è un orso polare. Ora, se anche vostro padre fosse un orso polare, non sareste curiosi di conoscerlo? Non andreste a cercarlo? Io l’ho fatto. Io sono andato a cercarlo»
Questo è l’incipit di Mio padre è un orso polare, un racconto in parte autobiografico di Michael Morpurgo, celebre poeta e scrittore britannico.
La storia è raccontata in prima persona dalla voce del minore di due fratelli, Andrew, e ripercorre l’avventura alla scoperta del proprio padre.
Andrew e Terry infatti hanno due padri: «uno che c’era - quello che chiamavo Douglas - e uno che non c’era - quello che non avevo mai conosciuto», ma che aveva dato loro la vita e un cognome.
A partire da quel flebile indizio, i due bambini, che hanno poco più di 5 anni, incominciano la loro personale ricerca per ricostruire la loro storia che naturalmente è custodita nell’oblio da ogni adulto e che quindi è inevitabilmente affascinante agli occhi di qualsiasi bambino.
Morpurgo riesce a mantenersi su un crinale pericoloso, in un perfetto equilibrio.
Quello che ci racconta è, infatti, uno dei drammi più profondi che segna l’identità di un bambino: l’abbandono di uno dei genitori.
Perché non c’è? Perché se n’è andato? Perché non sono bastato?
Eppure nel raccontarci questa esperienza, inestricabilmente abitata da emozioni contrastanti e certamente intrecciata a una vicenda “adulta” - di cui si immagina i bambini possano capire poco - quello che emerge è un rispetto silenzioso, osservatore, che non diventa giudizio o discorso esplicito e che testimonia che i bambini intendono molto più di quanto crediamo.
I bambini, infatti, sono spesso ritenuti felicemente inconsapevoli, Andrew e Terry mostrano invece una strenua e coraggiosa abilità che porta Terry, il più grande, addirittura ad un confronto diretto con il loro papà, attore teatrale. Quello che rimarrà da questa piccola fuga in camerino (o era solo una corsa in bagno?) è un biglietto commovente ma ugualmente doloroso e forse incomprensibile:
«A Terry e Andrew con tanto amore dal loro babbo orso polare, Peter. Siate sempre felici».
Il racconto cammina su questo grande tema-maestro (la ricerca del padre), raccontando l’episodio del primo incontro a teatro e poi saltando avanti nel tempo per dar conto di altri momenti in cui questo padre è stato reincontrato, ma anche indietro nella ricostruzione di una separazione, causata dalla guerra, e di un nuovo amore. Non è una storia intimistica, ma è un gustoso intrecciarsi di fughe e serate a teatro, film e feste di Natale rovinate, ma anche di telefonate tra fratelli e letture serali, che testimonia come l’infanzia sia tutt’altro che sprovvista di risorse e di intelligenza.
La storia presuppone incomprensioni spiacevoli: basti pensare solo al fatto che la madre si opporrà sempre a parlare del loro padre e che - acutamente ! - l’autore imputa la mancanza di un affetto realmente vissuto con il padre acquisito (Douglas), legando questo a una menzogna di fondo, cioè a una non volontà di parlare del loro padre.
Eppure in questo crogiuolo di emozioni che avrebbe potuto giustificare sdegno, frustrazione, rabbia o al contrario moralismo e retorica, ciò che emerge con limpidezza è una storia multiforme e imperfetta, molto simile alla vita, una storia dalle sfumature che ti fanno amare una madre anche nel suo silenzio ostinato e un padre anche nella sua lontananza. Un racconto che ti immerge nella storia senza scuse, ma lasciando sospeso il giudizio: Felicita Sala ci suggerisce, in modo quanto mai adeguato, di porci alle spalle dei protagonisti, lasciando che loro vivano i loro sommovimenti e noi i nostri.
Non pensate ad un libro sulla figura paterna, ma accostatevi a questo libro come un esempio perfetto di come si possa raccontare un’avventura intrisa di emozioni con rispetto, libertà e autenticità. Un’esperienza da provare.