Intorno al racconto del dramma della Shoah si intrecciano tante storie di chi per salvare una vita ha perso la propria o di chi, di fronte all’orrore dell’ingiustizia, ha saputo cambiare la sua vita.
La porta aperta di Mario Pacifici è il racconto-resoconto di una delle tante storie del ghetto di Roma, durante La Seconda guerra Mondiale, al cui centro troviamo Marina e Mirella Limentani, ebree, e un uomo, fascista, Ferdinando Natoni.
Il testo, più che un albo illustrato, deve essere considerato un libro illustrato perché la quantità di parole è consistente e le illustrazioni di Lorenzo Terranera fungono solo da corredo, tanto che credo che la storia possa essere goduta in ascolto, come anche la cornice narrativa sembra suggerirci.
Una vecchia nonna, Mirella, decide infatti di raccontare ai suoi nipoti un episodio della sua vita, un momento che probabilmente le ha permesso di sopravvivere. Nel 1943 Mirella viveva con le sue sorelle e i suoi genitori nel ghetto di Roma, non erano fuggiti né si erano preoccupati di trovare un altro luogo in cui vivere, perché il loro papà aveva coraggiosamente combattuto per l’Italia nella Prima guerra mondiale e nessuno poteva immaginare che questo, da un giorno all’altro, non sarebbe valso niente!
Invece la mattina del 16 ottobre 1943 accade quello che nessuno si augurava accadesse: arrivano i tedeschi e iniziano a radunare gli ebrei per portarli via. Mirella e sua sorella gemella Marina, colte alla sprovvista, nella confusione di quegli attimi concitati vengono tirate dentro casa da Ferdinando Natoni, rinomato fascista e sostenitore del Duce. È lui l’artefice di questo gesto che lascia interdette le bambine: cosa vorrà fare? Consegnarle?
Le due sorelle non sanno cosa aspettarsi, ma quando i tedeschi arrivano e cercano di portarle via, il signor Natoni non non esita un attimo a prendere le loro difese.
«“Non toccare mia figlia” gridava. “Non ti permettere, sono un miliziano fascista!”»
Ad essere portato via fu Natoni (tornò a casa salvo!) e non le bambine, che ebbero così la possibilità di fuggire e ricoverarsi in un convento cattolico poco distante e nascondersi. Rimarranno lì fino alla Liberazione.
La storia, narrata in prima persona, stupisce e conforta nel suo affermare che l’umanità appartiene all’uomo più di ogni schieramento.
«Non ho mai voluto sapere cosa avesse fatto prima di quel giorno, e non so cosa abbia fatto dopo. So solo che quella mattina aprì la porta. Nel momento in cui contava davvero, fece la cosa giusta. Si dimenticò di essere fascista, ma si ricordò di essere un uomo»
Il racconto basato su una storia vera è documentato anche fotograficamente in appendice, dove attraverso un QR code si può vedere il conferimento del riconoscimento di “Giusto tra le nazioni” a Ferdinando Natoni.
Il libro si presta ad essere narrato, come un ricordo e credo possa essere proposto anche a bambini della fascia della primaria, perché pur accennando a categorie storiche, mette al centro la scelta umana che indubitabilmente non può che essere compresa nel suo peso.
Altro tono, altre illustrazioni, altra tipologia narrativa ma vicenda molto simile è al centro di un albo illustrato uscito l’anno scorso per Orecchio acerbo: Passare il fiume di Alessio Torino e Simone Massi.
Anche in questo caso c’è una bambina, qui con la sua mamma e il suo papà, che fugge e si nasconde. Siamo nel 1944, tra l’Appennino umbro-marchigiano, a Secchiano: a nascondere la famiglia è tutto il piccolo paese.
Alessio Torino racconta questa vicenda attraverso un testo chiaramente adattato alla forma dell’albo illustrato, in armonia con le grandi suggestive immagini di Simone Massi che gratta e scava nel nero, offrendoci scorci di bianco, in quadri intensi e ritratti che guardano i lettori fissi negli occhi senza permettere a nessuno di distogliere lo sguardo.
Il testo sembra una raccolta di voci, spesso slegate l’una dall’altra, sembra riprodurre il vociare dei pensieri che ingombrano le menti di tutti i protagonisti di questa storia: Charlotte, i suoi genitori, ma anche il mugnaio, i partigiani, il Panichi e il parroco del paese, Giuseppe Celli.
«Quando devi nasconderti, il mondo piccolo diventa un mondo grande. Vi vengono a cercare. Vi vogliono trovare. Vi verranno a cercare anche giù dal cielo. Vogliono trovarvi tutti. […] C’è una spia che vi cerca e che parla molte lingue, ma nessuna lingua dice la verità. Se dicesse la verità direbbe: “Cerco Charlotte la bambina ebrea, con i suoi genitori ebrei, quei Fullenbaum, io so che il paese di Secchiano li sta nascondendo, non mi farò burlare da questo insulso piccolo paese”»
Sono solo tre persone da nascondere, eppure quello che si muove intorno è impressionante: c’è chi li nasconde, chi li sposta, chi li va a trovare, chi porta loro del cibo…
I civili fuggono tra i partigiani, superano il fiume, passano dall’altra parte, quella che segna (anche) un confine simbolico, ma il parroco non può fuggire, non può nascondersi e non lo fa.
«“Io non ho fatto niente di male”» dirà poco prima di essere imprigionato e insieme a molti altri innocenti deportato Mauthausen.
Il suo volto certo e sereno trafigge il lettore. Vale la pena perdere la vita per salvarne un’altra?
Nonostante la morte tra i partigiani, nonostante la deportazione di don Celli, non viene a mancare l’aiuto a Charlotte e ai suoi genitori: una mela, un pacchetto, del miele, le uova.
C’è la guerra, saltano i ponti, muoiono i fratelli, portano via gli innocenti, ma c’è qualcosa che vale per cui vale la pena lottare e anche don Celli passerà il fiume, lo faranno le sue ceneri sparse nel Danubio.
Non è solo la libertà che Charlotte e suoi genitori conquistano alla fine della guerra, ma la libertà per tutti di fare la cosa giusta.
Questo testo, ispirato a una storia vera, richiede per essere compreso una consapevolezza che riesca a unire le voci e gli accenni storici che l’autore lascia tra le pagine.
È un testo molto suggestivo e coinvolgente, perché nel riferirsi a un pubblico di età superiore, pretende una responsabilità che si concretizza nella domanda finale che chiude il libro: il tempo cancella ogni cosa?