[* i versi del titolo sono tratti da una poesia di Izet Sarajlić, Qualcuno ha suonato]
Le guerre sono tutte uguali o forse no. Le guerre sono sempre uniche per le vite che stravolgono, tuttavia alcuni tratti le definiscono come sempre uguali a loro stesse: la disumanità, la cecità, la violenza… sembrano parole, ma credo che viverle su di sé apra profonde voragini di dolore e paura.
Avrei dunque voluto parlarvi di questo albo illustrato che parla di una guerra di quasi 20 anni fa, parlandovene come un monito per il mondo “perché non accada più”, eppure proprio in queste ore questa storia torna ad essere impensabilmente attuale.
Raccontarvi, dunque, La fioraia di Sarajevo è per me l’occasione di ridirmi come la letteratura sia un’esperienza reale e nutra l’esperienza al di là dei vincoli spazio-temporali: non c’è bisogno di un libri sull’Afghanistan o sui “rifugiati” per parlare ai ragazzi della situazione attuale, è necessario invece raccontare storie belle, vere, ispiranti.
Racconta questa storia Mario Boccia, fotoreporter, giornalista di guerra che ha vissuto alcuni dei conflitti più cruenti e crudeli degli ultimi 50 anni e la illustra Maria Luce Possentini il cui realismo quasi fotografico è capace di catapultarci a Baščaršija.
Il cuore del racconto è la storia una donna, di quelle donne che sanno essere baluardo ostinato di speranza, quando intorno tutto sembra sgretolarsi dietro etichette formali che contrappongono gli uni agli altri (bianchi/ neri, uomini/donne, serbi/croati/bosgnacchi…).
Questa donna, «di una certa età», fioraia a Sarajevo, in periodo di guerra e di assedio si ostinava in modo del tutto incomprensibile a vendere sui banchi del mercato di Markale a Sarajevo i fiori o i fiori di carta che meticolosamente confezionava con la carta.
Chi cerca dei fiori, quando manca il pane? Chi spenderebbe uno solo dei suoi soldi per un fiore, quando si riesce a stento a trovare di che nutrire i propri figli con qualcosa di commestibile?
«Lei seguitava a vendere fiori assolutamente superflui»
Scombina i piani, questa donna, e colpisce infatti chiunque la incontri: chi sei tu?
Anche l’autore cade nel tranello di voler incasellare in una contrapposizione “comprensibile” questa umanità che sembra tracimare le etichette: sei serba? Sei croata? Sei musulmana? Di che etnia sei?
«“Sono nata a Sarajevo”. Credendo di essere furbo, le chiesi quale fosse il suo nome. E lei mi disse qualcosa che annotai su un foglietto. […] Più tardi chiesi a un amico se quel nome che avevo scritto era serbo, croato o musulmano. “Quale nome?” rispose “Qui c’è scritto solo fioraia.” Avevo ricevuto la prima lezione»
Ostinata, tenace in un mare di male questa donna coltiva e fa fiorire - non solo metaforicamente - la bellezza dove gli occhi si stanno abituando ad una bruttura ed un orrore che non sembra contraddicibile.
Scampata al primo attentato mostruoso e disumano nel marcato (il 5 febbraio 1994), era tornata con i suoi fiori al suo posto, disdegnando ogni paura: «aveva affinato la tecnica di costruzione dei fiori di carta, che erano diventati grandi e da lontano sembravano veri».
Pochi mesi di assenza e l’autore torna a cercarla, ma la fioraia non c’è più.
Le pagine perdono le parole, perché come possono le parole raccontare di un uomo che si apposti per sparare a caso, ma precisamente a persone, bambini che camminino per la strada? Non ci sono parole.
Eppure di questa fioraia di cui nemmeno sappiamo il nome conosciamo la storia.
L’autore scrive:
«se non lasci alla guerra il potere di cambiare la tua identità e il tuo ruolo allora hai vinto»
Io non so se si tratti davvero di “ruolo”, ma certo di identità, di un cuore che batte indomito se abituato ad amare, a cercare, a chiedere bellezza e felicità, anche nelle situazioni più buie. Se non perdi chi sei, hai vinto.
Coltivare la speranza con tenacia e determinazione significa coltivare l’umano che è in ciascuno di noi. Crescere uomini è l’unico modo di vivere la vita alla sua altezza.
P.S. ho voluto accostare a questa storia appena uscita un’altra storia, L’inizio, che racconta i medesimi scenari bellici. Mi ha colpito notare come lo stile per raccontare il dramma della guerra “debba” essere realistico, quasi fotografico, per raccontare forse senza tradire i volti veri che hanno vissuto quegli attimi.
Qui trovate la storia de L’Inizio.