L’età d’oro di Kenneth Grahame è un romanzo che viene citato in moltissimi saggi dedicati alla letteratura dell’infanzia, in particolare in quelli che toccano il racconto dell’infanzia e la sua stessa definizione.
Infatti Grahame, che scrisse quella che è a tutti gli effetti una raccolta di memorie della sua infanzia, introdusse il testo con un prologo, intitolato Gli Olimpii (The Olympians), che tocca in modo lucidissimo un tema importante e cruciale: l’invisibilità dell’infanzia.
«Ripensando a quei giorni lontani, prima che i cancelli si chiudessero alle mie spalle, mi rendo conto che dei bambini adeguatamente equipaggiati di genitori avrebbero guardato tutto con occhi completamente diversi. Ma non è poi tanto strano che dei bimbi provvisti soltanto di zii e di zie avessero un modo particolare di vedere le cose. Intendiamoci, quegli zii provvedevano con animo benevolo ai nostri bisogni materiali, ma per tutto il resto ci trattavano con indifferenza - un’indifferenza che, lo riconosco, derivava da una certa stupidità, ed era peggiorata dalla banale convinzione che i bambini siano soltanto bestioline. […] Una delle più sconfortanti caratteristiche della loro natura, infatti […], era proprio che pur avendo licenza assoluta di abbandonarsi a tutti i piaceri della vita non se ne concedevano mai nemmeno uno. Avrebbero potuto sguazzare tutto il giorno nello stagno, inseguire i polli, arrampicarsi sugli alberi coi più impeccabili vestiti della festa; erano liberi di comprare polvere pirica alla luce del sole, di sparare palle di cannone e di far esplodere mine sul prato: ma loro non se lo sognavano nemmeno»
Sulla base di questa introduzione, L’età d’oro è unanimemente definito un crossover, cioè un romanzo di cui è difficile identificare il lettore ideale, perché raccoglie racconti relativi all’infanzia, ma come memorie autobiografiche di un adulto.
A cavallo tra l’epoca vittoriana ed edoardiana, età davvero feconda per la letteratura per l’infanzia britannica, nacquero moltissimi romanzi rivolti ambiguamente ad adulti e bambini (pensate a Le avventure di Alice nel Paese delle meraviglie o a Peter Pan nei giardini di Kensington). Eppure se Alice e Peter – forse anche grazie ad una storia di illustrativa diversa – hanno saputo rimanere a cavallo tra i due mondi, raccontandosi ai bambini e agli adulti, i cinque fratelli, protagonisti de L’età d’oro, non sono invece mai riusciti a raggiungere i ragazzi. Lo hanno fatto al posto loro Topo d’acqua, Talpa, Tasso e Rospo con Il vento tra i salici, il capolavoro che Kenneth Grahame scrisse per suo figlio, come una vera e propria storia della buonanotte, ma che in realtà al suo interno non racconta né di bambini né di infanzia. Queste due opere di Grahame dialogano in modo incrociato, misterioso e interessante: L’età d’oro è un’opera che parla di bambini e di giochi infantili, ma sembra rivolta ad un pubblico adulto, la seconda è una storia che parla di adulti (i personaggi sono adulti e hanno preoccupazioni da adulti), ma da tutti è ritenuta adatta a un pubblico di bambini.
Perché?
Il vento tra i salici è da subito classificato come un romanzo per bambini perché Grahame lo pensò e lo scrisse per un bambino e questa destinazione ben definita si tradusse in una storia ricca di insegnamenti che volevano proporre ai bambini un modello da seguire e a cui aderire. L’etichetta “libro per bambini” è stata per secoli, ma purtroppo lo è ancora nella mentalità di molti, associata alla necessità di insegnare qualcosa. Al di là della bellezza innegabile e di tutti gli elementi letterari che fanno de Il vento tra i salici un capolavoro e un classico (ne ho parlato qui), è innegabile che Grahame innervò la trama di chiarissime prescrizioni, frutto di una mentalità adulta: l’invito all’immobilità, la riconduzione dello spirito eversivo e avventuroso di rospo alla norma, il riferimento continuo alle leggi di decoro e non ultimo l’abbandono della sregolatezza a favore di una vita rispettosa e giudiziosa. Tutti questi temi non possono non far pensare a delle raccomandazioni, pur disseminate in una trama eccentrica (soprattutto nella sua versione integrale), ricca, dettagliata e avvolgente dalla prima all’ultima riga.
La narrazione dell’infanzia de L’età d’oro è invece una narrazione libera, leggera, entusiasta e tremendamente divertente, ma proprio per la sua irriverente spigliatezza non è mai stata ritenuta adatta ai bambini, perché in fondo non ha nessuna pretesa didascalica.
Questo pregiudizio però può essere superato!
Selina, Edward, la voce narrante di cui non sappiamo il nome, Harold e Charlotte sono i protagonisti de L’età dell’oro e si muovono in luoghi che sono l’immagine letteraria dei luoghi dove Grahame trascorse l’infanzia, insieme ai suoi 3 fratelli, nel sud dell’Inghilterra. Luoghi che, insieme all’amatissimo Tamigi, rimasero nel suo cuore come i ricordi più belli. «The Mount», la residenza in cui vissero alcuni anni, sembrava essere uscita da un libro di fiabe: un frutteto selvatico, un giardino terrazzato, laghetti, una soffitta a volte… tutti spazi che ritroviamo riccamente raccontati nelle pagine del libro.
«Si entra in questo libro come varcando i cancelli invisibili dell’infanzia: dentro vi troviamo Edward, Harold, Selina, Charlotte, il narratore, cinque bambini in una casa di campagna inglese verso la fine dell’Ottocento, pronti a difendere con il coltello fra i denti qualcosa che non sanno neppure essere la felicità [...]. I ragazzi guatano ogni attimo disponibile per gettarsi in attività inebrianti: scavalcare muri in camicia da notte; sfogliare il Libro delle Fate; perseguitare volatili; trasmettere bigliettini amorosi; offrire bomboloni fantasma a viaggiatori invisibili; scegliere una dama a cui votarsi e soprattutto complottare senza tregua, attizzare una complicità iniziatica e uno spirito di sedizione che può manifestarsi nello scivolare lungo la ringhiera delle scale come nell’offrire un topo morto a una signora o nel fuggire in barca lungo il fiume, cercando – e naturalmente trovando – la Principessa. Ovvio presupposto, per questi ragazzi, è che la vita consista soprattutto nel «far finta» e che, a sua volta, il «far finta» sia il modo più sicuro per entrare in contatto con le cose che ci sono. Sanno che il frutteto è un «luogo prodigioso abitato dai folletti», sanno che i personaggi più fascinosi che si trovano nei libri esistono proprio perché se ne parla nei libri».
Da questa descrizione, che trovate nelle alette della sovraccoperta, si potrebbe pensare che il libro non sia niente di eccezionale (quante storie abbiamo letto di questo tipo?) ma, come un vero e proprio classico è stato proprio L’età d’oro a dettare il passo per tutte le narrazioni che sono seguite.
Le avventure di questi bambini sono imprevedibili, divertentissime e sono raccontate, in prima persona, con una disinvoltura che catapulta il lettore lì con i personaggi a giocare al venditore di bomboloni immaginario, e poi a sgusciare fuori dai letti per rubare i biscotti giù in sala, a scappare dopo aver rubato la barca al vicino, a contare i soldi per comprare lo scoiattolo dal figlio del fattore, a rincorrere per i prati il battaglione pronto chi sa a quale scontro, a cercare di arrivare a Roma… per qualsiasi strada...
Il gioco, il divertimento, l’immaginazione sono il vero fulcro di queste storie e segnano anche il solco che separa adulti e bambini: una diversità di sguardo. Infatti, messi di fronte allo stesso paesaggio, un bambino e un adulto non vedranno le stesse cose, o meglio, intuiranno possibilità molto diverse. La differenza sostanziale tra le due ottiche sembra essere la predisposizione alla meraviglia. In ogni anfratto, ombra, rifugio, albero i bambini intuiscono la possibilità di un gioco e di un’avventura e lo spazio collabora attivamente alla trasformazione di sé stesso, sotto lo sguardo del bambino che plasma ciò che guarda.
«Harold e io perseverammo nell’impresa, convinti che da un momento all’altro le siepi circostanti avrebbero crepitato sputando piombo e morte. “Saranno indiani,” domandò mio fratello (riferendosi ai nemici) “o puritani, o chi altro?” […] “Non sono indiani,” risposi infine “e nemmeno puritani. È da un pezzo che qui intorno non si vedono puritani, Devono essere francesi”. Harold fece il muso lungo. “E va bene,” disse “contentiamoci dei francesi; io però speravo che fossero indiani”. “Se fossero indiani2 chiarii subito “io... be’, non credo che proseguirei. Perché quando gli indiani ti fanno prigioniero, prima ti scotennano e poi ti bruciano al palo. Ma i francesi queste cose non le fanno”».
L’adulto non ne è più capace di guardare il mondo così, rimane per lo più alla superficie delle cose, ma quel che è peggio è che non vede il bambino e i suoi bisogni. Su questa invisibilità dell’infanzia è illuminante il capitolo La stanza azzurra, che racconta in modo esilarante una fuga notturna dei cinque fratelli che viene “letta” dall’istitutore come un congresso notturno di fantasmi.
L’età d’oro è proprio lo spazio guardato dai bambini e questa capacità di stupirsi si riverbera in pagine vividamente descrittive che Grahame ricostruisce sensorialmente:
«Il vento spadroneggiava urlando all impazzata, signore del mattino. I pioppi oscillavano e si scuotevano con un sibilo ruggente, le foglie morte s'al-zavano d'un tratto e turbinavano in aria, e tutto il cielo terso pareva palpitare di suoni come una grande arpa. Era uno dei primi risvegli dell’anno. La terra si stiracchiava sorridendo nel sonno, e al tocco del gigante tutto sussultava e pulsava. Per noi si trattava di un intero giorno di vacanza in occasione di un compleanno - poco importa di chi. Uno di noi si era visto elargire doni e bei discorsetti, e tutto raggiante si era sentito pervaso da quel senso di eroismo che non è certo meno dolce solo perché non si è fatto nulla che lo giustifichi. Ma la vacanza era per tutti, per tutti l’estasi della natura al suo risveglio, per tutti le svariate gioie che si incontrano all'aria aperta: pozzanghere e sole e scavalcar steccati. Io correvo per i prati come un puledro, scalpitando con festosi talloni al cospetto della natura che rideva cordiale.»
L’invisibilità-solitudine dell’infanzia, tuttavia, non è solo il frutto di un egotismo e di una cecità adulta, ma è uno spazio fisiologico e necessario al bambino, perché la crescita è un atto per molti aspetti solitario. Il riflesso narrativo di questa solitudine necessaria è espresso magistralmente in tanti episodi del testo dove si mostra nella spontanea attitudine al nascondimento, al godimento delle piccole cose.
Il racconto del cassetto segreto è il vertice esatto di tutto questo: la voce narrante scopre in una cassettiera un meccanismo segreto che nasconde una piccola scatola, immaginando che dentro siano custoditi sonanti dobloni
«quando tornai a guardare la sparuta raccolta riposta in quel cassetto delle delusioni, mi si riaccese in cuore una fiammella, man mano che mi rendevo conto che era stato uno spirito consonante col mio a metterla insieme. Due bottoni d'oro ossidati che parevano da marinaio, il ritratto di un monarca a me sconosciuto, ritagliato da una vecchia stampa e abilmente colorato a mano con lo stesso tipo di spavalda tinteggiatura che usavo io; alcune monete straniere, di rame, più spesse e di fattura più rozza di quelle che possedevo io; e un elenco di uova di uccelli, coi nomi dei posti dove erano state trovate. E poi il muso di un furetto, e una corda catramata che serbava ancora un lieve odore! Ma allora era proprio il tesoro di un bambino, quello che avevo trovato!»
Il romanzo si conclude con con la partenza di Edward, il fratello maggiore, per il collegio, che determina un cambio irreversibile nella banda dei fratelli: questo vento di novità malinconica custodisce una domanda che forse è un presa d’atto. L’infanzia è destinata a finire e a lasciare dei ricordi, così come il protagonista ha lasciato i tesori nella scatola segreta all’interno della cassettiera.
La lingua de L’Età d’oro è certamente colta, introspettiva, creatrice di ricami minuziosi, ma ciò che prevale come impressione è la fedeltà al punto di vista dell’infanzia: è il romanzo delle avventure di una schiera di bambini!
Ugualmente posso immaginare che le bellissime immagini Maxfield Parrish richiamino un immaginario adulto e complesso, ma è il romanzo delle avventure di una schiera di bambini!
Grahame si trattiene sulla soglia dell’osservazione e ne nasce un’opera esilarante e purissima allo stesso tempo, un libro ricco di parole e avvolgente in sensorialità, un libro di giochi e avventure, un libro che non mancherei di leggere schiettamente ai bambini (dai 9-10 anni).