Il teschio è un racconto lungo a firma di Jon Klassen che colpisce perché, rispetto all’ironia sottile, spesso sopra le righe ed esilarante che costituisce la cifra delle sue narrazioni, ha qualcosa a che fare con le fiabe e con il loro potere limpido e intenso di perturbare.
Come racconta l’autore, in una nota in appendice al testo, questa storia è nata in lui in Alaska dopo aver sfogliato un albo illustrato che conteneva un racconto folkloristico tirolese. Nel tempo questa storia si è trasformata, nella testa dell’autore, diventando un racconto autonomo. È lo stesso processo che avveniva nell’antichità con la trasmissione orale delle fiabe.
Non aspettatevi risate: il titolo catapulta il lettore nella cupezza di una vicenda che si innesca di notte e che è pervasa di morte:
«Una notte, nel cuore della notte, mentre tutti dormivano, Otilla finalmente scappò»
Il bosco, il buio, la notte, la neve e una bambina da sola che scappa da qualcosa che la rincorre.
Il testo non dà spiegazioni e il lettore si trova a correre disperatamente insieme a questa bambina, insieme al suo dolore, insieme alla sua paura.
«Otilla era immersa nella neve, nelle tenebre e nel silenzio e pianse»
Nella sua fuga disperata e precipitosa, ecco apparire un chiarore che, nella palette cromatica dei verdi e dei marroni, spicca con il suo color salmone: un’alba inaspettata alle spalle di una villa che già intuiamo avere qualcosa di magico o di stregato.
A confermare questa intuizione è il padrone stesso della villa abbandonata: un teschio parlante.
«“Scenderò e ti farò entrare, ma solo se prometti di portarmi in braccio una volta che l’avrò fatto. Sono solo un teschio e rotolare è difficile per me”»
Otilla entra nella villa: tutto è silenzioso, tutto è inanimato, tutto è morto da tempo, ma amato da un padrone di casa che vi ha trascorso la vita da vivo e da morto. Il teschio guida la bambina a conoscere per la casa: la sala da ballo, la stanza del camino, la stanza delle maschere, la torre, il balcone, la serra…
«“Questa è la mia stanza preferita”, disse il teschio. “Puoi mangiare le pere?”, Chiese Otilla. “Posso mangiare quelle che cadono per terra, ma non riesco a raggiungere quelle buone sui rami”, disse il teschio. “Te ne prenderò una”, disse Ottila porgendogli una pera a cui lui diede un morso. I boccone gli passò tra i denti e cadde sul pavimento. “Ah, deliziosa”, disse il teschio. “Grazie”»
Tra Otilla e il teschio nasce una strana relazione: ad unirli il bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro.
Il giro della casa tocca anche le prigioni, dove è presente un pozzo senza fondo: un buco nero capace di risucchiare e di contenere all’interno del suo oblio le più orribili paure.
Nulla sembra turbare la situazione ma, quando tramonta il sole, lo scheletro confida ad Otilla la maledizione che, ogni notte, percorre i corridoi della casa:
«“C’è uno scheletro che viene qui, in questa casa”, disse il teschio. “È uno scheletro senza testa. Gira per i corridoi a cercarmi. Quando mi trova, mi insegue”. “Ti ha mai preso?” Chiesa Otilla. “No”, sussurrò il teschio […] “Non vuoi che ti prenda”. “No”, sussurrò il teschio. “Non voglio”. “Verrà stanotte?”, chiese Ottila. “Viene ogni notte”»
L’apparente serenità si squarcia così in un istante. Accomodatisi comodamente tra le coltri in una camera da letto, Ottila e il teschio riposano e attendono fino a quando una voce inquietante riecheggia tra i corridoi:
«“DAMMI QUEL TESCHIO. VOGLIO QUEL TESCHIO”»
La scena diventa immediatamente dinamica: Otilla scappa (di nuovo) con la morte alle spalle e con il teschio in braccio. Lo scheletro li rincorre furiosamente, ma Otilla ha un piano, evidentemente pensato con attenzione raggiunge il balcone della torre e con una mossa fulminea spinge giù lo scheletro. Salvi? No, non è finita.
Infatti, dopo aver rimboccato amorevolmente le coperte al teschio, Otilla esce per fare a pezzi le ossa dello scheletro, bruciarle e poi gettarle nel buio del pozzo senza fondo.
Questa sequenza di azioni ha qualcosa di profondamente inquietante, simbolico e ancestrale, nella precisione e nell’apparente assenza di emozioni che guidano la bambina nel liberare dalla persecuzione e dalla paura il suo amico teschio: una determinazione che colpisce.
All’alba, avvolti in una luce arancione che dà calore allo spazio, la bambina e il teschio decidono di rimanere insieme nella villa, insieme.
La scansione della storia in quattro tempi rende il testo abitato da un silenzio che richiede, di volta in volta, di raccogliersi per affrontare una nuova parte del cammino. Il silenzio è anche la scelta di non spiegare tanti aspetti di questa narrazione, e questo aggiunge un mistero e un’inquietudine che arrivano al cuore del lettore. Da chi scappava Otilla? Perché scappava? Perché il teschio non vuole riunirsi allo scheletro? È il suo scheletro? Quale relazione c'è tra Otilla e il teschio? Sono la stessa figura?
La stessa rappresentazione di Otilla è neutra, ma angosciante: gli occhi sempre sbarrati, la bocca che scompare e che, quando è presente, rimane in un’espressione imperscrutabile, quasi a non voler rivelare realmente qual è il suo stato d’animo.
Forte, catartico il gesto di liberazione che la bambina compie in favore del suo amico teschio: è probabilmente ciò di cui aveva bisogno per liberare se stessa dalla paura.
L’impaginazione del testo è curatissima, le immagini sono perfette nella rappresentazione e nel ritmo, il libro nella sua fattura complessiva è una piccola gemma.
Una storia perturbante che non vuole dare spiegazioni e che non può non colpire il lettore: non per una falsa paura con cui crogiolarsi stupidamente e ridere, ma per una riflessione sulla vera paura e su tutti i passi che bisogna compiere insieme a qualcuno per liberarsi da essa: affrontarla.