Quando vi chiedevano che lavoro facesse vostro padre, voi sapevate rispondere esattamente? Io no. In effetti non avevo neanche bene in mente cosa facesse il mio papà: lavora(va) in un ufficio e… boh. Dopotutto non è che semplicemente aggiustasse macchine o spegnesse fuochi…

Mio figlio invece è fortunato e non avrà mai problemi a raccontare agli amici che lavoro fa – o meglio attualmente tenta di fare – la sua mamma, cioè io, e tutto questo grazie a un libro. La cosa incredibile della vicenda è che non avrei mai – e dico mai – immaginato che un giorno una autrice di libri illustrati avrebbe pensato che la professione a cui aspiro poteva essere interessante a tal punto da raccontarla ai bambini.

Cerchiamo di spiegarci. Quando le persone mi chiedono che lavoro faccio, io inizialmente dico che sono una ricercatrice. Di solito le persone si illuminano, immaginandomi probabilmente come una novella Marie Curie: «Ah, e che cosa studi? Microbi, malattie mortali, stelle, radiazioni, cellule…?». E quando io dico: «No, sono di lettere» il mondo crolla e quella luce di comprensione e ammirazione nei loro occhi si tramuta in una sorniona aria di sufficienza «Ah. E che cosa potrà mai ricercare una persona che ha studiato lettere?». Il seguito del dialogo diventa nubiloso mentre cerco di spiegare che studio i testi italiani antichi («No, non Dante, testi settecenteschi») e che in particolare mi occupo di lingua, di dialetti e storia della lingua («sono una linguista…»): di solito a metà della mia entusiasta prosopopea l’interlocutore è già più che distratto, confermato nel fatto che i letterati non possono di certo essere ricercatori, men che meno scienziati.

Ma – udite udite – Catarina Sobral, quattrocento anni dopo Daniello Bartoli, scrive un albo per bambini dedicato all’affascinante lavoro dei letterati, e nello specifico proprio al lavoro dei linguisti (che è quello che faccio io)! Io non riuscivo a crederci.

Tutto comincia, nei risguardi di copertina, con un carrello: uno di quei carrelli tanto ben conosciuti e amati dagli studiosi letterati. È un momento emozionante: di solito dopo avventurose ricerche – al cui confronto avventurarsi nella giungla nera è una passeggiata – il giovane studioso è riuscito ad acchiappare una segnatura, ha richiesto il suo incartamento al bibliotecario e trepidante aspetta il rumore delle rotelle, certo anticipo del momento in cui finalmente conoscerà il suo bottino. Ve l’ho detto: è un momento emozionante.

Come nella storia di Catarina il paesaggio che fa da sfondo a questa avventura è una biblioteca: nel silenzio della sala, tra i tavoli numerati, i leggii aperti e gli scaffali ordinati, in religioso silenzio il linguista ricerca, legge, scopre, annota, segue fili e indaga, deve lottare spesso contro topi malefici che hanno tentato di banchettare con le sue carte, deve pazientare con autori che ebbero pessime maestre elementari e che non impararono mai a scrivere bene, deve misurarsi con autori che si scordarono di apporre il proprio nome su carte e testi e smascherare sonori malfattori che si spacciarono per altri. Il linguista deve imparare ad amare le copertine marmorizzate e trattenersi dal maledire passati bibliotecari che, ago e filo alla mano, diedero vita a mostri tremendi quali le miscellanee, deve convivere con terribili sentenze – «Non si trova più» – e improbabili prese di posizione – «La sala manoscritti è aperta solo dalle 10 alle 10,15 e dalle 17 alle 17,10». Tuttavia, superati tutti questi ostacoli, capita che il povero linguista possa scoprire qualcosa, ad esempio una parola nuova (o “neologismo”, se vogliamo essere precisi), come ad esempio la parola «Cimpa». La straordinaria scoperta, che nel mondo reale avrebbe entusiasmato solo un ristretto gruppo di cultori, nel nostro albo mette in subbuglio il mondo intero. Viene interpellata un’ordinaria espertissima in materia che non ha dubbi «non è cimpa, ma cimpare, un verbo della prima coniugazione»: magno gaudio, tutti incominciano ad usare il verbo misterioso. Ma come tutti sanno (lo sapete tutti, vero?), il mondo della ricerca è un mondo agguerrito e ognuno vuole dire la propria: «Fermi tutti! Secondo un’analisi minuziosa della parola, cimpanon può essere altro che un nome». La gente, per altro coltissima, si adegua immediatamente e lo farà utilizzando la nuova parola come sostantivo, poi come aggettivo, poi come avverbio, congiunzione… Tutti i linguisti del mondo erano in agitazione ognuno tentava di proporre un’interpretazione ragionevole fino a che la professoressa Zelinda… beh, non posso rovinarvi il finale.

La storia, oltre a dover essere regalata ad ogni linguista e letterato, mostra con allegra ironia, come il mondo e le favole, appunto, siano fatte di parole. Con le parole ci si può giocare, con le parole si scoprono mondi e le parole appartengono a ciascuno perché ognuno le usa, le trasforma e le inventa, perché no, secondo la propria particolare e unica sensibilità e storia. Saverio, devo ammetterlo, non è rimasto davvero colpito dalla storia, ma quando gliene ho parlato come del mio lavoro, si è illuminato e abbiamo iniziato a cimpare anche noi.

Le illustrazioni di Catarina Sobral mi sono piaciute tantissimo: il segno della matita, i collage, la puntuale e fine linea di alcuni particolari e la grana più grossa dei pastelli, l’imperfezione e l’irregolarità nella costruzione dei volumi e delle forme creano un effetto davvero unico e bello. Ho amato molto la descrizione degli spazi: la città affollata, ma anche le strade e i mezzi pubblici. Espressiva, unica e realistica l’umanità ritratta: guardate i gesti, i movimenti dei piedi, delle mani, le espressioni degli occhi. I rossi, i gialli e i verdi dominano, ricordando i colori portoghesi già visti in molti autori di quel Paese. Curiosa la scelta del lettering, fondamentale in un testo come questo. Un risultato d’insieme davvero magnifico e inaspettato.

E voi cosa aspettate a cimpare?!

Cimpa

Catarina Sobral

40 pagine
Anno: 2014

Prezzo: 16,90 €
ISBN: 9788898519019

La nuova frontiera junior editore
Anobii

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