Bruno Tognolini è una persona disponibilissima e deliziosa. Risponde con pazienza e gentilezza a ogni mia domanda, cerca di spiegarmi, di introdurmi il suo pensiero e il suo mondo che è fatto in gran parte di poesia.
Così si descrive: «Come si impara a scrivere? Nascendo in Sardegna, studiando latino per otto anni, greco per cinque, medicina per quattro, poi partendo per il Continente e studiando teatro e spettacolo per altri quattro, poi facendo teatro per altri dodici, poi TV con Albero Azzurro per altri quattro, Melevisione per altri dodici, poi imparando a memoria e ripetendo centinaia di versi dei grandi poeti antichi, scrivendo 1.270 filastrocche, 50 libri, e teatro e canzoni e videogame... Insomma: una fatica può essere anche un sogno?».
Ma il suo mondo è sfaccettato e profondissimo, è un uomo dalle idee chiare, un poeta fisico che sente la poesia nel corpo e non come un esercizio di ritorno all’infanzia (a questo riguardo andatevi a leggere anche la sua autobiografia infantile Doppio blu, Topipittori). Ha trovato il suo mestiere, mi ha raccontato, lo ama e lo svolge con passione, contagiando tutte le persone che incontra: piccoli e grandi lettori. È questa dimensione fisica della poesia che nasce con i battiti del cuore della mamma e che continua con ritmi di mani e braccia e poi si nutre di lingue e giochi che rende vivi i versi che scrive. La sua bibliografia è vastissima (qui i volumi recensiti da Scaffale Basso) ed è spesso invitato a parlare e a raccontare di poesia: non perdete l’occasione di incontrarlo nella lettura o di persona!
Ha sofferto di balbuzie, ma è un fiume in piena quando gli si chiede di parlare. Vi lascio alle sue parole, ringraziandolo immensamente.
Lei considera diversamente le filastrocche, il gioco ritmico con le parole e la poesia?
Sì e no. Con i bambini no, con gli adulti sì e questa è già una differenza. Non sono uno storico della cultura, ma tutti noi ci siamo accorti che nel Novecento è capitato qualcosa alla letteratura, alla pittura, alla musica per cui ci si è staccati da certe ritmicità, una certa organicità quasi biologica, quasi fisiologica dei linguaggi che avevano a che fare con il corpo, per cui la musica non è più ritmica, l’arte non è più figurativa, la poesia non è più in rima e neanche in ritmo. O almeno tutto questo non è più evidente ed è possibile che sotto i versi dei poeti che non sembrano scrivere con una metrica pulsante ci sia un ritmo rigoroso così come sotto la pittura – che io definisco astratta – una figurazione che è riconducibile al corpo e al mondo, però rimane celata.
Se mi fossi rivolto agli adulti, non avrei potuto scrivere ottave o quartine in rima con un ritmo a metronomo (che è quello del cuore e che deve essere così perché se il cuore va fuori ritmo son guai), elementi che a me stanno a cuore, e questo è uno dei motivi per cui sono diventato scrittore per l’infanzia. Se a uno piace scrivere in rima e in ritmo o diventa un pubblicitario, o diventa un paroliere di canzoni, oppure in quale altro ambito di produzione può scrivere in rima e ritmo, rima e metro? Per i bambini, quindi, la poesia e la filastrocca sono sorelle.
Quando io dico le mie filastrocche, nei mille incontri che faccio nelle classi, le dico ritmandole perché hanno un ritmo e devono essere dette con quel ritmo. Mentre lo faccio i maschietti più spiritosi fanno con le mani i gesti del rap e dicono: «Ma questa non è poesia, questo è rap!»
E io quando li sento mi immagino che pensino: «Queste non sono come le poesie che leggiamo a scuola! Sono come quelle che sentiamo fuori scuola, cioè nei rap, perché ci piacciono, mentre quelle a scuola non ci piacciono» secondo la legge per cui tutto quel che c’è a scuola è una noia, mentre nel momento in cui sono fuori scuola tutto quanto è figo. Allora io li spiazzo dicendo: «No, sono rap, ma sono anche poesia. La poesia è sempre stata rap o meglio lo è stata per molti secoli!» E a questo punto attacco con un pezzettino del mio training di filastrocchiere, che tra le altre cose contempla l’apprendimento a memoria di lunghe risme di versi e la ripetizione orale mentre cammino. Adesso, ad esempio, sono avanti con la Gelosia di Orlando dell’Ariosto così dico: «Ascoltate questa poesia di più di mille anni fa scritta da un ragazzo che voleva fare la corte alla sua fidanzata» e incomincio. Gli dico anche il primo canto della Divina Commedia e gli faccio vedere come si può entrare e uscire dal rap. Loro riconoscono il ritmo rap e io dico: «ecco vedete? Una volta e per moltissimi secoli non c’è stata molta differenza tra poesia e rap né tra poesia e filastrocca».
Quindi secondo lei ciò che fa la differenza nel fascino che la poesia desta nei lettori è il fatto che sia o meno proposta a scuola? Oppure è una questione di saper leggere la poesia in un certo modo?
Non basta la lettura, perché nella poesia non c’è solo la funzione orale e ritmica: ce ne sono infinite, screziate e complesse. Ad esempio quando io leggo la Szymborska in italiano, perdo completamente la rima e il ritmo e quello che mi arriva è solo senso, anche perché non ho nessuna possibilità di guardare e comprendere il testo a fronte originale – mentre leggendo in inglese, francese o spagnolo in parte riesco a capire qual era il suono originale.
Nelle lezioni che tengo per le insegnati e per i bambini dico sempre che la poesia e la filastrocca hanno due ali. Una si chiama suono, una si chiama senso. Tutte due incominciano con S e finiscono con O, tutte e due sono formate 5 lettere. Ora il suono è un’ala, serve tantissimo per far volare la poesia e se non batte con forza ed eleganza quell’ala, con forza e bellezza la poesia non vola.
Quindi dire le poesie, leggerle, farle suonare è importante, ma è solo una delle due ali, anche se già in parte in quest’ambito la poesia oggi risulta carente e deficitaria. Per leggere le poesie bisogna ripeterle, leggere, imparare a leggere, addestrarsi.
Comunque la poesia con una ala del suono vigorosa funziona soprattutto nelle poesie ritmiche. Un esempio è il vasto bacino di filastrocche di gioco, che sto raccogliendo in giro per il mondo. Ho raccolto delle filastrocche molto belle, di gioco ma anche non di gioco e genero sempre molta emozione quando le faccio sentire al pubblico. È lo stesso principio dell’Ariosto: quando gli uomini vogliono dire qualcosa di importante nei millenni l’hanno sempre detta in rima e in ritmo, e ancora oggi è così, se pensiamo agli slogan della pubblicità.
A cosa serve la poesia? La poesia fa. Fa fare, fa piangere (se serve piangere…), fa ridere (se serve ridere..) come la pubblicità che usa la poesia per far comprare.
Certamente i ragazzi sono affascinati dal ritmo. Quali sono le ragioni per cui leggere loro poesie con un’ala del suono non così sviluppata?
Ha senso perché l’altra ala della poesia è quella del senso. Queste due ali dovrebbero essere lunghe uguali perché l’uccello voli con armonia, ma spesso non è così: c’è un alona del senso lunga lunga e un’alina del suono molto corta. Nel viceversa c’è divertimento, cioè quando l’ala del senso è quasi nulla e l’ala del suono è molto forte.
«Etico peletico pelempempetico pelato…» ad esempio è una splendida filastrocca che ho raccolto e registrato in diverse parti d’Italia, addirittura un’insegnante argentina ha saputo recitarmi la sua versione spagnola. Queste sono le filastrocche in cui il suono è fortissimo e il senso è nullo: fanno divertire. Le poesie in cui il senso è fortissimo e il suono scompare hanno bisogno di un senso davvero forte per distinguersi da un discorso quotidiano.
La poesia è l’unico linguaggio verticale: si deve distinguere dal linguaggio orizzontale e quotidiano e quindi o si distingue con salti che sono di ritmo o si distingue per un volo di senso e allora occorre che abbia altre armi, codificate nelle figure retoriche, nelle allegorie oppure in quella forza innominabile e oscura che sfugge a ogni descrizione e che possiamo chiamare ispirazione.
Quindi tutti e due i generi di poesia vanno letti ai bambini.
Sì sì andrebbero letti tutti e due e bisognerebbe ai bambini che sono tutte poesie, anche se sembrano così diverse. La differenza è che mentre con il ritmo, se uno la sa valorizzare, la poesia arriva subito perché è fatta per quello (i copywriter puntano su quello, così gli slogan: e qui si capisce che le filastrocche non sono poi sempre cose da bambini!), le poesie con un senso forte e un ritmo più debole fanno più fatica a raggiungere i lettori bambini e quindi occorre scegliere poesie in cui il senso sia forte e che stupiscano un po’. Il ritmo dà immediatamente un forte colpo, un impatto fisico che è dato dal suono, il senso deve arrivare ad ottenere lo stesso effetto.
Cosa significa essere un adulto con tutte le esperienze, la vita, i pensieri di un adulto e parlare ai bambini? Perché, ad esempio, le sue Rime di rabbia dovrebbero essere poesia per bambini e non poesia e basta?
Non tutta la poesia degli adulti è per bambini, mentre tutta la poesia per bambini può essere per adulti. Se uno scrive davvero per bambini scrive per tutti, ma non vale il viceversa, secondo me. Ci sono tanti che sostengono che non esiste una letteratura per l’infanzia, ma esiste solo la letteratura. Secondo me invece esiste una letteratura per l’infanzia che è letteratura tanto quanto l’altra.
Forse è improprio, ma trovo calzante questo confronto. Un pediatra è un dottore in medicina e nessuno si sognerebbe mai di dire che non è un medico, è uno che ha l’arte della medicina e il mestiere della pediatria. La letteratura per l’infanzia è letteratura, non ha niente di meno rispetto all’altra così come il pediatra non ha niente di meno rispetto ad un medico di base o rispetto ad un endocrinologo, però sono specializzati, sono esperti, hanno maestrie mirate su cose diverse. Io credo che la poesia per l’infanzia, quando è profonda, può essere fruita con forza da tutti e almeno a me, questo sta succedendo: succede che le mie poesie per bambini siano apprezzate dai grandi. Ma non è vero il contrario e anche in questo caso forse ci può aiutare la medicina: credo che tutti i farmaci per l’infanzia possano essere assunti dagli adulti, ma non viceversa! Perché c’è una complessità corporea, un’identità dell’organismo che rende impossibile al bambino metabolizzare certi elementi. È la legge, che io chiamo, dell'imbuto: le filastrocche mi costringono a ridurre il linguaggio e il discorso a delle gocce piccole, commisurate alle orecchie piccole dei miei ascoltatori, ma senza rinunciare alla complessità e alla vastità del grande.
È l’imbuto che ci vuole. C’è una riduzione c’è sempre una riduzione in piccolo. Noi facciamo giocattoli che sono riduzioni in miniatura degli oggetti del mondo e li diamo nelle mani ai bambini per giocarci e sono quelli che vogliono, sono contentissimi, tanto più i giocattoli sono fatti bene, tanto più il bambino è contento. Quando ero piccolo capitava che i miei genitori, che non erano ricchi, mi compravano una macchinina costosa… che aveva tutti i fari, i finestrini, gli specchietti… era stupenda e io ero felice e me la guardavo, ero felice. Quindi rimpicciolire non vuol dire sminuire è una miniatura. Tu al bambino non dai mezza macchina, gliela dai intera, ma ridotta. La regola dell’imbuto è questa per me: ridurre in parole semplici senza rinunciare alla complessità del mondo. Le mie filastrocche, se ci fate caso, sono fatte di parole quotidiane, sono povere lessicalmente parlando, quello che rende uniche è come queste parole sono composte l’una con l’altra. Io evito accuratamente parole che possano suonare complesse, perché cambiano completamente il tono della poesia. Questo imbuto è fisiologico, umano, è specie specifico: qualsiasi adulto che si china su suo figlio di 2 anni istintivamente sceglie delle parole piuttosto che altre. È l’istinto stesso che gli dice che con il bambino deve parlare in un certo modo. Quindi non si può parlare ad un bambino con la stessa poesia della Szymborska o di Alda Merini che parlano invece in un certo modo ai grandi. Bisognerà cercare e scegliere quelle in cui per intenzione o per caso anche la Merini o la Szymborska abbiano applicato l’imbuto.
È difficile dunque che il bambino colga l’intera complessità della poesia della Szymborska.
Non gli fa male, ma non gli fa niente. Non lo metabolizza e quindi non lo nutre.
È possibile allora che tanta dell’avversione del timore che troviamo nei ragazzi nei confronti della poesia sia da imputare al fatto che venga loro proposta una poesia che non riescono a metabolizzare, di cui non riescono a nutrirsi? Forse i ragazzi rimangono colpiti da lei perché offre loro una poesia a misura delle loro orecchie e del loro cuore.
Forse è una combinazione di più fattori. C’entra una presenza, una intenzione che è alle spalle a monte, un’intenzione comunicativa umana che è a monte di tutto. C’è qualcosa che transita da me a loro, piccoli e grandi, e me ne accorgo, non è vanagloria. Ci ho anche pensato, ma poi mi sono fermato e ho fatto una scrollata di spalle, perché so - con l’età si capisce meglio - che è inutile andare a scavare nei misteri oltre ad un certo punto, perché si arriverebbe sempre ad uno strato del problema e mai al cuore - per fortuna! Comunque sia che io mi esponga da un punto di vista umano e mi faccia vedere fragile, ad esempio con questi residui di balbuzie, è l’abbandono che fa la differenza. Per cui certamente c’è una quota di comunicazione sciamanica e misterica, che è la voce, la presenza, la faccia, e tutto l’altro che c’è dietro (io non parlo solo per me, «Fammi del tuo voler sì fatto vaso») ed è la spinta, ma poi ci deve essere una forza a valle che è l’efficacia dei versi.
Perché lei fa il poeta?
Perché è il mio mestiere! Fabrizio De Andrè, ne Il suonatore Jones dice «E poi se la gente sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare».
Io questo passo lo uso per spiegare da cosa è forzato un poeta d’occasione.
Però se ti capita di fare ciò che ti tocca e ciò che ti piace fare è ciò che ti tocca, ti tocca fare ciò che ti piace, allora è fatta!
Grazie!
Di seguito alcune raccolte poetiche di Bruno Tognolini