Lo dico sempre, perché è sempre un'emozione ospitare gli artisti che i libri li scrivono, li pensano e li illustrano. Oggi lo è particolarmente perché di BlexBolex, ovvero Bernard Granger, è difficilissimo reperire informazioni, probabilmente per la sua indole schiva e riservata. Così quando inaspettatamente si è reso disponibile a rispondere alle mie domande, che nascevano dalla profonda passione che ho per i suoi lavori, mi sono quasi commossa. Le ricchissime risposte trasportano i lettori nel suo studio: sembra di vederlo lavorare e si percepisce la profondità che riesce a donare alle sue tavole, pur lavorando sull'essenzialità.
Grazie!
I tuoi libri sono evidentemente pensati per essere belli, iconograficamente però sembrano rivolgersi solo agli adulti. Quando però si propongono ai bambini, questi diventano tra i tuoi più affezionati lettori. A che tipo di pubblico pensi di rivolgerti con le tue opere?
Non penso di pormi la questione in questo modo. Sono lieto che le persone possano considerare i miei libri come opere d'arte, ma non so se io li considero così. È davvero una domanda difficile. Allo stesso modo, credo che i miei libri siano accessibili ai bambini: io li faccio in questa prospettiva. Detto questo, non mi pongo il problema di sapere se e in che misura tutti gli aspetti di questi libri siano loro accessibili. Non ho mai ragionato su questo piano perché non ho alcuna formazione in pedagogia o psicologia. Ho fatto questi libri nel modo in cui ho pensato che dovessero essere fatti e dal momento che sono destinati principalmente ai bambini, mi è sembrato importante farli più belli e attraenti possibile, secondo il mio criterio di giudizio, che è una miscela di intuizione ed esperienza.
Dietro questi libri c’è un lungo lavoro ed è necessario che trovi il modo di rinnovare continuamente in me l'interesse per tutto l’arco di tempo necessario, cercando di mantenere un certo livello di attenzione e curiosità. Credo che una parte della esperienza di lettura che propongo al lettore - e che è del tutto ipotetica quando incomincio ad ideare il libro- derivi anche da questo modo di lavorare intorno alla scrittura. Questo si lega alla prima parte della domanda, e a cui mi è difficile rispondere. Per certi aspetti quindi, sì, questi libri nascono in modo analogo a un'opera d'arte (ma di che tipo?), per altri aspetti la loro lavorazione sembra più una sorta di gioco in cui cerco o di coinvolgere attivamente il lettore o di metterlo nelle condizioni di seguire da spettatore; in altri casi invece si tratta di un’esperienza piuttosto intima.
Nella fase iniziale, per me non è tanto importante riflettere su chi potrebbe essere il lettore dei miei libri, quanto piuttosto sulla loro costruzione interna e su quanto questa risulti accessibile. È questa la mia più grande preoccupazione. Non devo decidere a chi si rivolgono i miei libri: voglio solo che trovino la loro strada e i loro lettori.
Per fortuna io non lavoro da solo e sta ai responsabili di Albin Michel, e in particolare a Béatrice Vincent, la mia editor, dire se i libri sono accessibili o meno ai bambini, e nel caso specifico abbiamo valutato che lo erano.
Il lavoro di accostamento immagine lessico, soprattutto in Immaginario e Stagioni, affascina per la sua originalità. Non ci si aspetterebbe mai la didascalia che tu inserisci. Che tipo di lavoro fai con le parole? È spontaneo il tuo gesto di composizione o è frutto di riflessione e studio?
Entrambi i libri effettivamente hanno in comune il fatto che sono stati progettati a partire da una parola: "gente" e "stagioni". Questa parola definisce in larga misura l’orientamento di ciascuno dei due libri fin dall’apertura e ne costituisce in qualche modo la chiave d’accesso. Ho cercato di farne il mio riferimento per tutta la realizzazione. Il contenuto di questi libri non è che una declinazione di ciò che queste parole contengono in potenza, tutto il libro è una sorta di dialogo, un susseguirsi di variazioni sul tema.
Una volta che una parola viene fuori, è come se si fosse messo in moto un ingranaggio difficile da controllare. Da una parola, infatti, ne scaturisce sempre un’altra, perché nessuna, anche se relativamente precisa, è definitiva (almeno io la penso così). Quindi, per riprendere il filo, bisogna cominciare a metterne giù altre: liste di parole che vanno osservate, selezionate, corrette ecc.
Poi arriva il disegno che in qualche modo turba l'ordine delle parole, lo mette in discussione. Nella maggior parte dei casi il disegno è illustrazione vera e propria (un’immagine esplicativa della parola, grosso modo), ma non sempre. Capita anche che l’immagine risulti tale solo in virtù della sua giustapposizione alla parola, ed è una cosa interessante da osservare perché in questi casi non si tratta più di un’illustrazione così come l’abbiamo definita. Il mutato rapporto fra parola e immagine, infatti, va a costituire una nuova unità espressiva: la pagina. Ciò consente di giocare con quelli che sono a questo punto i suoi elementi compositivi e di proporre questo stesso gioco ai lettori : si apre la possibilità di riprendere in considerazione il vocabolario dal punto di vista sia semantico che visivo.
In aggiunta a ciò, la configurazione del libro come oggetto (un dittico che si rinnova quando si gira la pagina) offre l'opportunità di stabilire nuovi rapporti dialettici, dal momento che a questo punto si tratta di collegare due unità all'interno di uno spazio che è quello del libro e all’interno di una continuità che è quella di lettura. Le immagini, il disegno, il vocabolario, e la tipografia (la visualizzazione, la materializzazione della parola) diventano funzioni. E perché funzionino meglio, occorre dar loro qualità, vale a dire cercare di calibrare al meglio questa qualità rispetto al posto che occupa in un dato insieme in modo tale che l’insieme stesso ne tragga beneficio.
Questa dinamica sembra molto complessa, ma non lo è, in realtà è elementare. La spiegazione di una cosa semplice a volte è molto complicata. Non chiedo al lettore di capire quello che sto cercando di spiegare (e che in parte, in certa misura non capisco neanche io), lo invito piuttosto a partecipare ad una sorta di gioco, un esperimento di cui cerco di padroneggiare le regole cercando di renderle interessanti, divertenti e stimolanti.
I tuoi libri sono “aperti” si lasciano raccontare, ogni volta si può ascoltare una storia diversa. Perché ami questo tipo di narrazione?
Penso che sia perché le immagini mi interessano più che la narrazione di storie. Io sono un disegnatore, tendo ad osservare più che ascoltare. Quello che è divertente è vedere come un’osservazione, che confina con un’altra, comincia con questa a stabilire un rapporto più o meno sottile e che una serie più ampia comincia a produrre in modo efficace una narrazione. Non riesco a spiegarmelo, lo constato. Se questo rapporto è troppo confuso, si ottiene una sorta di balbettio, se invece si riesce a semplificare efficacemente la sequenza diventa un discorso. Ancora una volta, l'equilibrio è difficile da raggiungere e da mantenere. Quando mi rendo conto che il discorso diventa troppo incoerente metto un po’ di ordine, quando vedo invece che tutto si sta delineando in una direzione troppo precisa, introduco un po’ di disordine e di imprevisto.
Trovo importante mantenere questa apertura, soprattutto perché a questo livello so di rivolgermi ai bambini. Quello che voglio trasmettere loro non sono le mie idee o i miei pregiudizi, ma degli strumenti che - spero - consentiranno loro – in qualche caso, se possibile – di formarsi idee personali e magari di comprendere alcuni dei propri pregiudizi. Ma in realtà questo non è l’obiettivo più importante perché, come ho già detto, non sono un insegnante, ma uno scrittore e il mio intento principale è suscitare e mantenere il piacere della lettura.
Le immagini che riproduci spesso non sono usuali. Riesci a vedere le cose in modo unico eppure vero e molto riconoscibile. Che lavoro c'è dietro le tue immagini?
Non lo so. Molti artisti mi hanno influenzato o ispirato, ma non solo artisti, persone, vive o morte, la natura, le idee: la vita in generale, insomma. Questo è certamente un luogo comune, ma è così.
Prima di incontrare il genere dell’imagier, ero in generale poco soddisfatto o relativamente insoddisfatto di quello che producevo. Ciò che mi consentiva di mettere un po’ d’ordine o di senso in ciò che facevo era essenzialmente la volontà di padroneggiare le cose a livello tecnico. Io vengo dal mondo della stampa [serigrafica NdT] e la base tecnica dell’arte della stampa è la separazione dei colori. È una cosa che si impara. Per ricostruire un'immagine e consentirne la riproduzione devono essere compresi e ripristinati i componenti dell’immagine stessa. Per creare un'immagine a mezzo stampa, è necessario scegliere i componenti.
Gli imagier hanno questo di speciale, il fatto che, a differenza di altri miei libri, non sono più soltanto i colori e le forme le componenti del libro, ma tutto o quasi tutto il contenuto del libro stesso. Ciò che ho fatto è stato sostanzialmente applicare al contenuto degli imagiers il metodo appreso nella mia esperienza in ambito serigrafico, un metodo fondato su questioni di funzione, posizione e risparmio. Ciò è avvenuto però, devo precisarlo, senza alcuna pianificazione, ma in modo del tutto istintivo, azzardato, e non me ne sento responsabile. Si tratta di una sorta di deformazione professionale, possiamo dire.
Questa spiegazione un po’ tecnica non può spiegare tutto, ma è l'unica che posso fornire. Quello che mi guida nel mio lavoro è una “bussola sensibile” che deriva sicuramente dalla mia attività di lettore e nasce, nel mio caso, dall’accumularsi di diverse esperienze che ho fatto fin dalla mia nascita. Io cerco di fare quello che ho imparato ad amare, in un modo che cerco di amare.
Se con Immaginario e Stagioni avevi lasciato la parola libera ai lettori, in Ballata li guidi a riscoprire il godimento della rielaborazione a partire da un canovaccio. Gli antichi greci godevano non tanto dell'originalità della storia, ad interessare era la modalità di rappresentazione. Ballata è così. Cosa è cambiato rispetto ai primi due libri? Era un percorso a tre tappe che avevi già pianificato o è stata una tua evoluzione nel tempo?
Hai perfettamente ragione a parlare di canovaccio. Ballata non è che questo. I motivi che l’adornano sono presi in prestito dalle storie o da diversi tipi di storie e intervallati tra loro. Quindi non è un collage. La base di questo canovaccio è molto semplice: è una forma chiusa su se stessa (un ciclo), ma l'interno è duplice. Ballata non pretende di essere una storia in prima battuta, ma l'idea era di fare un imagier di storie. Come per gli altri due albi l’intento non poteva essere la completezza, impossibile e improbabile, ma lasciar avviare quel sistema di ingranaggi, di cui ho parlato.
Lo scopo, almeno inizialmente, non è tanto scoprire nuove storie, ma riconoscerne di antiche. Da lì, il problema era quello di mostrare il meccanismo o le cuciture, se si preferisce. Questo riguarda ancora le funzioni e la lettura del libro di Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, si è rivelato ricco di lezioni. Ma Ballata non riproduce questo libro alla lettera, anzi non sono sicuro che tutte le funzioni descritte da Propp una volta messe una dopo l’altra possano dar forma a una storia degna di questo nome. Propp è uno studioso e un accademico, io non lo sono, ma non sono neanche un narratore.
Non aspettatevi un racconto originale in Ballata, ma nemmeno una banale compilazione. Ballata nasce dall'esperienza cumulativa dei due libri precedenti (stabilisce un insieme di relazioni, dunque) che ha deciso di esprimersi in questa forma. Con questo modulo e quella forma. Perché volevo ancora rispettare la forma espressa – si tratta un imagier –, perché la trovo bella. La conseguenza è che il lettore diventa narratore, è abbastanza normale perché qui ce ne vuole uno.
Ma deve averne voglia, e io posso solo cercare di stimolarlo nel modo che descrivevo prima, offrendogli una rete di fili narrativi al contempo sufficientemente stretta da impedire che si perda e abbastanza ariosa da permettergli di trovare ispirazione. Un vero e proprio racconto non può svilupparsi così.
C'è una reale differenza tra una storia e la sua narrazione. La narrazione è un insieme di tecniche che vengono apprese. In questo nulla è cambiato rispetto ai miei due libri precedenti: è lo stesso metodo applicato semplicemente a nuovi componenti. Ripeto, non sono cosciente di ciò che faccio mentre lo sto facendo. E ancora una volta, questo non spiega tutto.
Questa è una serie. In origine dovevo fare diversi imagier su argomenti diversi, poi è stato naturale arrivare a questo risultato. Non ho capito cosa sia successo: è stato del tutto imprevedibile. Ora la serie si è conclusa, non farò altri libri di questo genere. Tuttavia, questa forma di libro può essere una fonte inesauribile di ricchezza e incoraggio tutti gli artisti che amano i libri per i bambini a cimentarvisi e a condividerla il più possibile, perché è bella e appassionante. Credo che, in fondo, questo è quello che ho cercato di dire e trasmettere con questi tre libri.
[La traduzione è a cura di Stefania Andro, amica che ringraziamo!]
Pagina dedicatagli dall'editore italiano (non esiste un sito ufficiale)
Bibliografia delle opere tradotte in italiano:
Immaginario, Orecchio acerbo 2008
Stagioni, Orecchio acerbo 2010
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[…] Orecchio Acerbo Editore Intervista Scaffale Basso […]