Impossibile non conoscere Benjamin Lacombe, uno degli illustratori più noti al mondo, riconoscibilissimo per uno stile illustrativo magico. Questa estate ho avuto modo di intervistarlo a partire da una delle sue ultime imprese (Storie di fantasmi del Giappone) e ciò che mi ha lasciato sbalordita è che dietro una competenza e un talento eccezionali, si cela un lavoro quasi maniacale di studio, documentazione e immedesimazione di questo artista nei testi a cui si accosta. Non solo dunque una prevedibile interpretazione di un testo, ma una ricostruzione quasi filologica delle immagini che il testo custodisce e cela, perché le illustrazioni di sua mano possano essere perfetto specchio delle parole a cui si affiancano.
Sono dunque molto emozionata, nel lasciarvi alla nostra lunga discussione, per la quale ringrazio Benjamin per la pazienza e la disponibilità e l’editore L’ippocampo, sempre gentile e accogliente.
Grazie!
Hai illustrato molti “classici”, e la cosa che mi incuriosisce è sapere se si tratta di storie che avevi letto da bambino, e che quindi in qualche modo erano già entrate nella tua immaginazione, oppure se si tratta di testi che hai letto per la prima volta da adulto, quando ti sei dovuto cimentare a illustrarli.
Dipende! Ci sono alcuni classici che ho sempre voluto illustrare, fin da quando li ho letti da bambino. Uno di questi è Alice nel paese delle meraviglie – che tra l’altro uscirà questo autunno con le mie illustrazioni – un altro è Racconti macabri di Edgar Allan Poe, che sono due libri che ho scoperto quando ero molto giovane e ho sempre desiderato ardentemente illustrare. La stessa cosa è successa con Notre Dame de Paris e Biancaneve, due altri libri che ho sempre amato. Diverso invece è stato il processo dietro Storie di fantasmi del Giappone e Bambi, perché sono testi che ho letto da adulto. Ma ero molto interessato agli argomenti di cui trattano, quindi c’era anche in questo caso un legame di affezione, anche se di origine diversa dai primi titoli di cui ti ho parlato. Ad esempio Storie di fantasmi del Giappone parla del folklore giapponese, che è davvero molto interessante, e che avevo già scoperto tanti anni fa attraverso i manga, come è successo per tanti della mia generazione. Ma la conoscenza del folklore giapponese che uno può ottenere leggendo i manga è sempre molto superficiale. Avevo già scoperto l’esistenza degli Yōkai, ad esempio, ma non ne conoscevo le storie. Poi ho letto le Storie di fantasmi del Giappone di Lafcadio Hearn e ho scoperto un mondo di storie meravigliose, che raccontano di fantasmi in modo davvero lontanissimo da come lo facciamo noi occidentali, per cui i fantasmi più o meno sono degli esseri descrivibili con un lenzuolo bianco svolazzante. Di Bambi, invece, conoscevo a grandi linee la storia, e sicuramente non avevo mai pensato di illustrarla. Poi ho scoperto di cosa parla veramente, ovvero della nascita dell’antisemitismo nell’Europa Centrale degli anni Venti. Ed è stato scoprire qualcosa molto vicino a me, perché sicuramente in Francia, tanto quanto nell’Europa Centrale, si sta registrando una rinascita dei nazionalismi e dei razzismi. Insomma spesso i classici sono tali perché parlano di argomenti che sono molto pertinenti alla natura umana. Si dice che la storia si ripete… di sicuro si possono usare i classici per descrivere la società contemporanea.
C’è un rapporto particolare tra te e le storie di spiriti e fatine (fairytales)?
Potrei dire, di getto, che non mi piacciono le favolette che hanno per protagonisti delle fatine alate seminude. Non mi interessano. Ma è normale che quando si parla di fiabe uno pensi subito alle principesse, a storie sognanti e cose del genere. Non voglio dire che non mi interessano le fiabe classiche, ma che è un discorso da approfondire, che si ricollega a quanto detto prima. Bisogna andare a fondo degli argomenti. Biancaneve, per esempio, può far pensare a una principessa, ai nani e ai coniglietti e quindi a una storiella per bambine. Invece Biancaneve è una storia su cosa significa diventare vecchi senza però riuscire a gestire l’invecchiamento, come succede infatti alla mamma di Biancaneve. Ed è un problema attualissimo, perché è pieno di persone che ricorrono alla chirurgia plastica proprio perché non accettano di invecchiare fisicamente. Ma la fiaba parla anche della crescita, del diventare adolescenti e poi diventare adulti. È il ciclo della vita, che avviene in tutte le famiglie, da sempre, quando i bambini crescono, diventano uomini e donne e la mamma invecchia. E se l’unica virtù che le donne posseggono è la loro seduzione, allora invecchiare può essere un problema. Inoltre Biancaneve è una fiaba sulla diversità, perché in modo molto semplice tutto ciò che le succede dipende dal fatto di essere insolitamente bella, e questo diventa un problema!Succede sempre così quando uno è molto diverso dalla gente comune: in un senso o nell’altro, nasce un problema. Ecco, Biancaneve non è solo una fiaba classica dal lieto fine. È lo stesso per Storie di fantasmi del Giappone, perché quello di cui si parla veramente è di rispettare ogni cosa, anche la più piccola forma di vita. E questo è qualcosa di difficile da comprendere veramente per noi occidentali, per noi che siamo in cima alla piramide e ci sentiamo padroni del mondo. Ciò che dicono le Storie di fantasmi del Giappone è che qualsiasi cosa può diventare uno Yōkai, anche una piccola cosa, e questa piccola cosa può diventare più importante di te. Ed è qualcosa che in effetti stiamo imparando a causa del cambiamento climatico e di come ogni azione che compiamo sull’ambiente può avere effetti ben maggiori di quello che pensiamo. È tutto collegato ed è quello di cui le Storie di fantasmi del Giappone parlano davvero.
Il Giappone è molto presente nel tuo lavoro. Sei autore e illustratore di Storie di fantasmi del Giappone. Cosa ti piace di quel Paese, oltre agli spiriti e alle loro tradizioni?
La cosa divertente è che il mio primo libro, quando avevo nove anni, è stato un fumetto su una storia di fantasmi giapponesi. È passato tantissimo tempo, Ma poi ho illustrato The Butterfly lover, e ora Storie di fantasmi del Giappone. Sento come di dovermi trattenere dalla tentazione di andare troppo verso il Giappone, perché è una passione davvero forte, ci sono cresciuto dentro, come ti ho detto, leggendo manga e guardando cartoni animati giapponesi. Ma non voglio ripetermi, e anche se sia il mio primo lavoro che l’ultimo sono sul Giappone, sono due opere completamente diverse, anche perché sono passati venti anni e adesso parlo del Giappone in modo completamente diverso. Ma è difficile spiegare razionalmente perché uno ha un’attrazione verso una cultura piuttosto che un’altra! Sicuramente amo la cultura nipponica, ho fatto 5 libri sul Giappone, ma diciamo che ho comunque allargato lo sguardo e ho toccato anche altre culture. 5 libri su 40 che ho realizzato sono comunque una piccola parte, non credi?
I tuoi libri sono stati tradotti e pubblicati in Giappone?
Ci sono alcuni miei libri in Giappone. Ma devi capire che i Giapponesi odiano quando si parla di loro, e la cosa peggiore per essere pubblicati da loro è fare un libro sul Giappone! È divertente perché invece ci sono alcuni manga sulla Francia, come Lady Oscar, che hanno raccontato un sacco di cose completamente sbagliate sulla cultura e la storia francese. Leggere Lady Oscar per me era terribile, non c’era una cosa giusta, avevano mischiato tutto quanto, unendo i quattro moschettieri a Maria Antonietta, come se fosse un frullato di Francia. Ma ho amato tantissimo quel manga, sebbene però rimanessi esterrefatto dagli errori enormi che conteneva. E io ho sempre voluto evitare quel tipo di errori. È anche per quello che voglio essere preciso nei libri che realizzo.
Potrei dire semplicemente di essere molto pignolo, perché ogni volta che disegno un kimono, il motivo della stoffa che scelgo di illustrare è collegato al personaggio che lo indossa o al periodo storico in cui è ambientato. Perché anche il disegno e la foggia dei kimono cambia rispetto al periodo storico. Oppure mettere il kimono in un certo modo è appropriato solo per i morti, mentre chi è vivo lo indossa in un altro modo. Ma questa mia precisione ossessiva nasce innanzitutto dal mio grande amore per il Giappone: non per niente ho una stanza intera di libri su quella nazione! Un altro piccolo aneddoto, per farti capire, riguarda una mia mostra che si è conclusa da poco a Parigi, intitolata Shizen – che significa “natura” in Giapponese. Siccome il nome della mostra era in giapponese, molti dei visitatori erano giapponesi, incuriositi proprio dal titolo. E spesso uscivano convinti di aver visto opere di un giapponese, proprio per la correttezza dei dettagli delle mie illustrazioni.
Hai detto che per te illustrare significa portare le cose alla luce. Le tue illustrazioni effettivamente sembrano irradiare luminosità, e sono spesso circondate dall’oscurità. Cosa rappresenta la luce per te e per il tuo lavoro?
Illustrare deriva dal latino, significa mettere in luce. Siamo in Italia, la patria della luce nella storia dell’arte, grazie a Caravaggio e alla sua luce che usciva dall’oscurità. Se non ci fosse l’oscurità, se tutto fosse luminoso, semplicemente non si noterebbe la luce e tutto sarebbe piatto. Hai bisogno delle ombre per accentuare la luce. Perché se fossimo in una stanza nera e ci fosse un piccolo libro bianco, ne saremmo immediatamente attratti, e viceversa. Cosa significa? Che ti servono bianco e nero per creare i volumi, ed è ciò che mi ha sempre interessato. Spesso nel mercato italiano e francese dell’illustrazione per bambini si chiede di usare un mondo di colori accesi e piatti: rosso, giallo, arancio, verde, azzurro. Per me si tratta di una visione orribile, è un incubo! All’inizio della mia carriera, quando è uscito il mio primo libro, le reazioni erano: “è troppo scuro, non è per bambini!”. Ma in realtà i bambini lo amano. Io trovo che sia molto più opprimente un mondo che è così diverso dal mondo che vedi e sperimenti, come se fosse il mondo di Murakami. Io amo Murakami ma il tipo di mondo che descrive per me è come un incubo. Chissà se mi sono spiegato!
Lo stesso approccio può essere visto nei tuoi personaggi, perché i tuoi ritratti non sono mai piatti e come hai detto una volta non comunicano delle emozioni a senso unico.
Le persone sono così! La maggior parte di noi è ben più complessa e sfaccettata di quello che può sembrare. Ho realizzato un libro, tanto tempo fa, La Piccola Strega, che è stato per me una grande opportunità per approfondire come mai le streghe fossero illustrate sempre nello stesso modo, ovvero vecchie signore con un brutto nasone. Era il 2008, quindi parecchi anni fa, e allora mi sono messo a cercare il motivo di questa omologazione, approfondendo la parte psicologica della questione. Ho analizzato alcune streghe delle fiabe e alcune donne che storicamente erano state accusate di stregoneria. Scoprendo che molto spesso le donne accusate di essere streghe altro non erano che donne più intelligenti degli uomini, o più ricche o semplicemente diverse dal normale. Potremmo dire che si trattava di donne più avanti del loro tempo! Un altro tratto comune alle streghe nelle fiabe è che non hanno mai un marito. Potremmo dire che questi stereotipi sulle streghe sono stati il frutto di una visione patriarcale del mondo. Ed è questo che mi ha interessato, ovvero interpretare un personaggio in maniera diversa da come era sempre stato visto, e che questo personaggio non fosse solo la conseguenza di quello che gli era successo.
Ed è divertente come anche in Storie di fantasmi del Giappone non ci sia mai un singolo personaggio cattivo. È tutto molto più complesso. Può succedere infatti che se non mostri rispetto per uno spirito, questo si trasformi cambiando completamente in negativo. Un esempio è il Kappa, uno spirito davvero divertente e gradevole. Ma se non ti comporti bene con lui, si può trasformare e diventare uno spirito terribile.
È la stessa cosa con le streghe: dipende da come ti comporti con loro. E lo stesso, se ci pensi, succede con i cani. Se allevi un cane affinché sia aggressivo, diventerà un cane aggressivo.
Vorrei capire meglio le motivazioni che collegano la tua attrazione verso il Giappone e la tua necessità di esattezza.
Mi coinvolgo sempre molto con i soggetti e gli argomenti su cui lavoro. Uno degli aspetti che preferisco del mio lavoro è infatti la fase di ricerca. Quando ho realizzato Alice nel paese delle meraviglie ho fatto così tanta ricerca che non puoi immaginare… solo perché volevo illustrarlo al meglio. Ci sono tantissimi articoli e speculazioni sul perché Lewis Carroll abbia fatto certe scelte, ma io volevo provare ad arrivare alla verità e così ho letto tutti i suoi diari. Ogni volta che realizzo un libro cerco di usare le fonti originali, e per Alice sono poi andato a vedere i manoscritti originali per scoprire quello che Carroll aveva davvero creato. Anche se lui non è stato soddisfatto della prima edizione, ho scoperto che aveva pagato per ogni cosa di tasca sua, e quindi tutte le scelte erano imputabili a lui. Aveva assunto un illustratore, John Tenniel, per realizzare le immagini del libro, e sicuramente gli aveva mostrato delle fotografie. È semplice pensare, in accordo con la maggior parte delle fonti, che la vera Alice del libro sia in effetti Alice Liddell, che era una ragazzina dai capelli castani. E così, da illustratore, potresti pensare di dover realizzare una ragazzina castana. Ma se approfondisci un attimo, ti accorgi che non si tratta della verità, perché alla fine del manoscritto si trova una foto della Liddell, come dedica, sotto cui c’è un suo ritratto fatto dallo stesso Carroll. Ma la ragazzina illustrata da Tenniel nella prima edizione era invece molto diversa, era bionda, e assomiglia tantissimo a Beatrice Henley, di cui Carroll aveva due foto, che sono state molto probabilmente l’ispirazione di Tenniel. Io penso che Carroll abbia scritto il libro per la Liddell, ma si sia in effetti ispirato alla Henley, che era in un certo senso il suo sogno ideale. E così ha messo nel libro un po’ di entrambe. E io ho fatto lo stesso, mischiando la personalità dell’una che si trova nel racconto e l’aspetto fisico e il vestito dell’altra che si trovano nelle immagini. Lo stesso vale per la regina di cuori: se scavi un pochino scopri che si tratta di Elisabetta I. E capisci quindi perché lei nella storia parli di continuo di tagliare teste. È stata una regina sanguinaria, anche perché era una donna sola al potere e doveva dimostrare di essere forte. Ma se guardi anche ai suoi ritratti, troverai cuori ovunque e una forte dominante rossa. E questo stesso percorso di ricerca lo seguo per ogni progetto, perché mi interessa andare oltre la superficialità e capire perché certe cose sono state scritte in un certo modo. Perché ultimamente devo sentire che si tratta di qualcosa di vero, qualcosa di credibile, perché voglio disegnare qualcosa che sia altrettanto credibile.
Sembra un processo molto lungo e impegnativo.
Sì, lo è, ma è anche ciò che mi interessa, perché mi interessa imparare di continuo. Mi ricordo un libro su Maria Antonietta, che è stato molto divertente perché ho fatto tanta ricerca, anche in collaborazione con una ricercatrice storica. E su Maria Antonietta c’è una specie di disputa storica, o meglio un pettegolezzo, per stabilire se abbia avuto o meno una storia d’amore con suo figlio. La ricercatrice sosteneva che questo fosse solo un pettegolezzo infondato, e il motivo per lei era che la regina era costantemente circondata di persone e quindi non avrebbe potuto nascondere la relazione incestuosa. Io pensavo il contrario! Cosa è successo? Quattro anni fa hanno scoperto un libro che ha aiutato gli studiosi a decodificare la corrispondenza tra la regina e suo figlio, e di conseguenza è stato chiaro che i due avessero avuto una relazione amorosa. E così sono tornato dalla ricercatrice e le ho detto: “guarda che avevo ragione!”. Quello che voglio dire è che c’è una grande differenza tra lavorare superficialmente e fare un lavoro sapendo quello che si sta facendo, perché in quel libro ho usato delle vere lettere e ne ho scritte altre, fittizie, scrivendole nello stile del 18esimo secolo, come se fossi Maria Antonietta, perché volevo pagare un tributo e non farle dire cose che lei non avrebbe mai detto.
Sei davvero bravo nei ritratti che, se a parole potrebbero far pensare a un tipo di disegno statico, nelle tue illustrazioni risultano al contrario molto comunicativi e in grado di trasmettere sentimenti molto forti.
Mi piacciono i volti e ciò che possono esprimere. Penso che le facce umane – ma anche quelle degli animali – possano esprimere davvero tanto. Chi ha un animale, ancor più se un cane, sa di cosa sto parlando, perché a volte si riesce a comunicare con loro solo con le espressioni facciali, e allo stesso tempo capire quando gli animali hanno fatto qualcosa di sbagliato. Lo si capisce dai loro occhi, e loro di rimando capiscono, guardandoti in faccia, che ti arrabbierai. Ecco, con i ritratti è lo stesso, puoi esprimere un sacco di sentimenti. E hai ragione dicendo che la ritrattistica corre il rischio di essere statica. È così, ad esempio, nella pittura dei primi fiamminghi, che amo particolarmente. I fiamminghi sono stati i primi a ritrarre persone viventi, perché prima di loro la ritrattistica era solo religiosa. I loro ritratti sono statici, spesso su fondi marroni o molto scuri, per mettere la figura al centro, illuminata, e inquadrare solo la faccia e la sua espressione, ma sono allo stesso tempo veri e così intensamente espressivi. Io provo a ottenere lo stesso risultato quando disegno un volto, cerco di trasmettere la stessa forza di sentimento, e allo stesso tempo cerco di aggiungere un po’ di vitalità. Per riuscirci ho dei piccoli trucchi del mestiere. Ad esempio, in questo ritratto [copertina di Storie di fantasmi giapponesi] la ragazza è indubbiamente molto statica. Ma guardandola si ha comunque l’impressione del movimento grazie alla presenza delle farfalle e alla posizione del volto. E le farfalle sembrano in movimento perché le ho disegnate con un po’ di sfocatura. E così sono riuscito a creare una certa profondità dell’immagine, che qui, come anche altre volte, mi ha permesso di ottenere una specie di intimità del ritratto, perché è come se il soggetto fosse nascosto dietro a qualcosa che sta in primo piano. E anche la composizione della scena contribuisce a creare la sensazione del movimento, perché le farfalle si muovono a spirale e questo andamento annulla la staticità della figura.
Parliamo degli occhi, che nei tuoi ritratti sono sempre molto grandi.
Come ti ho detto sono cresciuto con la passione per i manga e anche per i fumetti Disney. Il padre riconosciuto dei manga è Tezuka, che quando nel 1950 ha disegnato il re leone [Kimba il leone bianco] voleva diventare un disegnatore per la Disney. È per questo che ha disegnato il leone con gli occhi grandi – anche se non così grandi come certi manga odierni – cercando di imitare Bambi, che era già famoso. Le similitudini tra Kimba e Bambi sono numerose: gli occhi, le orecchie, lo stile del disegno. E grazie a Tezuka e questa sua opera è successo qualcosa di enorme, sono nati i manga con i loro occhi sempre più grandi. Perché, e arrivo alla tua domanda? Perché la maggior parte delle espressioni ha negli occhi il suo centro, e ce ne rendiamo tristemente conto in questi giorni a causa delle mascherine, visto che bastano gli occhi per capire quando uno sta sorridendo. Gli occhi esprimono tutto, hanno questa importanza. E quando li espandi come faccio io, riesci a esprimere ancor più sentimenti.
Anche quando hai ritratto Edgar Allan Poe, ci sono queste persone che sono perfette, mentre i loro occhi sono come irregolari. È come se l'occhio fosse il passaggio di tutto.
In verità Poe, lo scrittore, non aveva un volto regolare. Una foto del suo volto è stata addirittura usata come esempio di asimmetria del volto. Guardando una metà della sua faccia o l’altra si vedono due persone diverse. Io disegno occhi grandi, ma non faccio solo ritratti con occhi grandi. Faccio anche teste grandi! Se incontrassi una persona con la corporatura dei miei disegni, sarebbe una persona fisicamente malata. E una difficoltà mentre si disegna e si cambia una proporzione, è che bisogna cambiare tutte le proporzioni per raggiungere una sorta di armonia: perché se disegnassi solo degli occhi grandi su un corpo normale creerei qualcosa di strambo. Anche se io, con i miei disegni, non cerco di copiare perfettamente la realtà, ma cerco invece di interpretarla, devo comunque rispettare le regole della natura, e creare qualcosa di ben proporzionato. Anche quando disegno un pesce o qualcosa che non sono abituato a disegnare, devo concentrarmi perché il soggetto reale, in natura, è perfettamente armonico, tutto è ben progettato e perfetto.
Come mai spesso le ambientazioni dei tuoi libri sembrano ricordare l’arte romantica?
Amo l’espressionismo, amo il rinascimento, amo il romanticismo. Ma i miei gusti stanno cambiando. Ad esempio adesso sto lavorando a un libro in cui sto cercando di inserire un po’ di impressionismo, che è qualcosa di affatto nuovo per me perché trovo davvero difficile lasciarmi andare. Sono senza dubbio un grande maniaco del controllo! Anche quando dipingo ogni dettaglio deve essere misurato, e questo è proprio il contrario dell’impressionismo e di ogni sorta di tentativo di astrazione che dica: “mettiamo un po’ di colori su un foglio e vediamo cosa succede”. Ma ci sto provando, anche se non è semplice, perché è come cercare di essere qualcun altro nonostante la propria voce, il proprio modo di parlare, di esprimersi, il modo in cui si è.