Il viaggio di ogni mamma incomincia con un viaggio del proprio figlio: il viaggio della nascita. Quando un bambino nasce si compie una separazione tra figlio e madre, eppure il bisogno che il bambino ha della madre è tale che immediatamente l’istinto lo riporta a lei, fra le sue braccia. Qualche giorno fa sono incappata in un video dove un bimbo con qualche istante di vita, si muoveva (!) in cerca del seno di sua madre: Casa albero di Ilya Green mi ha ricordato questa forza primordiale.
«Il mio albero era qui molto prima di me. […] Il mio bozzolo lì cresceva. Eccomi qui!». Fa capolino da una gemma verde la testolina intelligente di bimbo “tutto occhi”.
«Mi sentivo stretto, allora sono uscito per trovare un posto adatto». A gattoni sul ramo, incomincia questa ricerca: su, giù... niente sembra adatto. Forse il buco della civetta? Il nido degli uccelli? La tana del ghiro? La mela del verme?
«Guarda un po’! Un vermetto in un bel frutto! Ma lì è davvero troppo stretto!». Ma ecco altre foglie, altri rami: «Credo di aver trovato il più bel posticino».
Sarà una tavola senza parole a mostrarcelo, forse perché non ne servono.
È un posto perfetto, perfetto «per me».
Il viaggio che è un viaggio ideale, dalla gemma attraverso i rami e poi forse, così almeno suggerisce l’immagine finale con la poltrona-albero dello stesso coloro rosso, fino al cuore dell’albero, racconta forse quello reale della nascita, attraverso il sangue, ma poeticamente. Nello stesso tempo vi ho letto una storia capace di raccontare la maternità adottiva: in quel passaggio, vertiginoso, dall’albero a quelle braccia frondose, c’è anche l’affidamento di un figlio alla madre biologica a quella che lo accoglierà.
In quest’ottica io non ho percepito alcuna possibilità di fraintendimento con la storiella del “bambino che nasce sotto un cavolo” (osservazione che mi è stata fatta!), perché l’albero e il bozzolo sono parte della mamma stessa (da notare anche il suo abito): la casa albero.
Quello raccontato è dunque un viaggio primitivo di separazione e ricongiungimento e forse ci si aspetterebbe una maggior tensione illustrativa, invece le tavole di Ilya Green sembrano, ad un primo impatto, molto accoglienti e pacifiche. Tuttavia se osservate bene i blu, i viola, i rossi, i neri sono intensi, sono i colori cosmici dell’universo e del parto; le nervature delle foglie, dei tronchi, delle ali delle farfalle sono come fasci vascolari che portano la vita, radicandosi. C’è una pace confortante nelle illustrazioni, ma esse contengono all’interno un’energia potente. Gli occhi, gli occhi del bambino, poi, sono calamite: neri e profondi come un mistero, ma attenti, concentrati, non interpellano mai in prima persona il lettore (se notate lo sguardo è indirizzato sempre ad un elemento laterale), ma non sono sfuggenti e trovano la quiete quando intercettano la mamma e allora possono riposare.
Su uno sfondo reale ma più astratto, fatto di collage e colori, spicca con carattere quasi ritrattistico la figura umana, segnata dal tratto nero a matita dell’illustratrice. Non sono figure neutre, ma personalità definite e realistiche, ritratti veri e propri, dolcissimi nelle loro espressioni e posture.
Il testo essenziale, giocato sul reiterarsi della situazione e quindi sulla ripetizione e sui versi assonanti e ritmati, è giocoso e perfetto da leggere con il proprio bambino (2-4 anni). Il tema della mamma, declinato nell’accoglienza su misura («perfetto per me»), nella soddisfazione che è anche fisica che essa rappresenta, se pensiamo alla percezione sensoriale del neonato che si ritrova a casa, è trattato con originalità non scontata.
Mamme: case alberi.