L’universo narrativo di Avatar che mi aveva (inaspettatamente) colpita, continua a intessere storie non scontate con l’uscita del terzo volume a firma di Gene Luen Yang, autore quest’anno premiato con uno dei premi più prestigiosi nel panorama editoriale del fumetto, l’Eisner Award, per Dragon Hoops.
Torna la compagnia di Aang, senza Zuko (sigh!) impegnato altrove, pronta a riprendere la storia lì dove si era interrotta.
La narazione prende immediatamente una piega che sembra far intuire al lettore il cuore narrativo, ma tuttavia il modo in cui anche temi “classici” vengono declinati risulta sempre interessante, perché gli animi e i pensieri che popolano il gruppo di amici non è uniforme e quindi i vari punti di vista, che si affacciano alla questione, possono essere contrastanti e comunque provocanti.
Questa avventura è dedicata alla tostissima Toph e riprende un filo narrativo che era rimasto sospeso, cioè la frattura che la ragazza aveva attuato nei confronti della sua famiglia d’origine, e si intreccia con quello dei suoi amici, allargando il tema delle origini in una grande domanda sul passato: il passato va sempre preservato? Che impatto ha il passato sul presente? Il nuovo come si rapporta a ciò che c’era prima?
Da una parte abbiamo Aang, l’Avatar, ultimo della stirpe dei Nomadi dell’Aria, che si trova a fare i conti con il desiderio di preservare e recuperare la sua storia e i momenti della tradizione del suo popolo, dall’altra abbiamo Toph che non desidera altro che cancellare il suo passato per scrivere un futuro più felice e autenticamente nuovo.
Le due posizioni sembrano entrambi ragionevoli e forse destinate a non incrociarsi.
Ma quando Aang decide di svolgere con i suoi amici un pellegrinaggio verso un luogo sacro per il suo popolo e al posto del bosco verde e incontaminato delle origini trova una raffineria, fondata dal padre di Toph, i destini e le posizioni dei due amici si intrecciano.
Il tema del nuovo si intreccia a quello dell’urbanizzazione e del rispetto della natura, ma ancora una volta lo lo svolgimento non è scontato e non è a senso unico prevedibile come si potrebbe immaginare.
La frase chiave è questa: si è sempre fatto così!
Questo interroga tutti gli amici: Toph contrapporrà un netto no grazie, mentre per Aang il “si è sempre fatto così” è un recuperare una ricchezza che lui pensa necessaria alla costruzione della sua identità, Katara e Sokka ripenseranno al loro popolo lontano.
La storia si snoda in modo molto avvincente e per nulla astratto, il gruppo di amici infatti scoprirà che nella raffineria, che ha sostituito la meta di pellegrinaggio dei Nomadi dell’Aria, si trovano si trova un primo tentativo di commistione di lavoro comunitario dei diversi popoli, ma nello stesso tempo anche un piano anche per mascherare lo sfruttamento del terreno e arricchirsi avidamente. Andando a fondo della storia del pellegrinaggio, Aang scoprirà una storia di Spiriti che metterà a repentaglio la vita di tutti. Il tema green fa spazio a tanti riflessioni sull’uomo, sul lavoro, sul rapporto con la natura, sulla spiritualità...
Ancora una volta Aang dovrà scontrarsi e incontrarsi con la sua storia passata, il che vuol dire connettersi con gli Avatar precedenti e ripensare al suo ruolo e al suo essere: chi è lui? Chi sono io? Toph dovrà fare i conti con suo padre, accettare di perdonare ma anche chiedere il riconoscimento della propria identità. Chi sono io?
Le trovate esilaranti sono assicurate (soprattutto grazie a Sokka!), così come i colpi di scene, le battaglie, i ripensamenti e colpisce proprio come gli amici comprendano che oltre i concetti, il punto di partenza sono le persone e gli amici che stanno loro affianco.
Quello che alla fine trionfa è un’unità che non vuol dire rinunciare al proprio pensiero originario o alla propria storia e identità, ma accettare la sfida di qualcosa che rinnova e riguardare indietro alla luce dei contributi delle persone a cui si vuole bene cioè degli amici.
Un’altra bella proposta dai 10 anni.