Su quanti sguardi si costruisce la definizione della propria identità? Ogni ragazzo che giunge l’adolescenza ricostruisce e costruisce un’immagine di sé che è data dalla rilettura della propria storia e dagli sguardi che ha incontrato e che incontra, di cui, da quel momento, sarà consapevole.

Questo, di per sé, è già un grande momento per ciascun ragazzo, quando poi in questa rilettura, che è data dalla somma degli sguardi del proprio familiare e della società, si assomma alla consapevolezza di appartenere a una cultura diversa, che magari ha anche regalato tratti somatici differenti, diventa una grande impresa trovare se stessi.

Gene Luen Young, in American born chinese, ci racconta in modo affascinante questo percorso attraverso un graphic novel complesso che intreccia tre storie, all’apparenza autonome, in un racconto armonico molto intenso e commovente.

Il volume si apre con il racconto di una delle più amate fiabe cinesi quella del Re Scimmiotto, uno spirito pieno di tenacia che soffre però per il suo aspetto che lui stesso considera non all’altezza dell’aspetto degli altri dei.

«Quando entra nella camera reale, l’acre odore della pelliccia di scimmie gli diede il benvenuto. Non l’aveva mai notato prima. Rimase sveglio tutta la notte pensando a come liberarsene»

La storia, dopo un primo episodio, si interrompe e lascia spazio ad un altro racconto.

La seconda storia è la storia di un ragazzino americano, Jin Wang, nato da genitori cinesi, che si trasferisce in una cittadina americana da San Francisco. Jin si misura, già nella sua infanzia (quando arriva ha 9 anni) con la società, rappresentata dalla scuola, che nell’apparente gioiosa accoglienza porta con sé tutti i pregiudizi e gli stereotipi sul mondo orientale e sulla Cina.

Dai nomi sempre sbagliati:

«“Bambini, diamo tutti un caldo benvenuto in stile Mayflower al nostro nuovo amico e compagno di classe Jing Jang!” “Jin Wang” “Jin Wang”»

Ad una circoscrizione geografica che viene insistentemente richiamata, sebbene sulla carta il nostro protagonista sia semplicemente un americano:

«“Lui e la sua famiglia si sono appena trasferiti nel quartiere direttamente dalla Cina” “San Francisco” “San Francisco”»

Fino ai più biechi pregiudizi:

«“Sì Timmy?” “Mia mamma dice che i cinesi mangiano i cani.” “Fai il bravo Timmy! Sono sicura che Jin non lo fa! Infatti la famiglia di Jin probabilmente non lo fa più da quando sono venuti negli Stati Uniti!”»

Anche in questo caso, la storia si interrompe e se ne apre una terza. L’ultima storia sembra ancora diversa, al centro c’è un ragazzino americano bianco, Danny, che teme e subisce l’arrivo del cugino cinese Chin-Kee, che sembra uscito da un film di pessima qualità degli anni ‘40 e che incarna tutti gli stereotipi che gli occidentali hanno sulla Cina.

Queste tre storie si avviano in modo indipendente e si alternano una dopo l’altra, in brevi sequenze, senza mostrare nessun punto di contatto, se non il tema “Cina”. 

Il Re Scimmiotto, emarginato dagli dei, dai demoni e dagli spiriti che lo reputano “semplicemente” uno scimmiotto utilizzerà in un primo momento la sua forza e poi impegnerà tutta la sua intelligenza per mostrare a tutti che dietro quella pelliccia di scimmia c’è un grande dio. Studierà e possederà le discipline maggiori del kung fu e della meditazione, diventerà immortale e invincibile, trascenderà persino il suo aspetto e non si fermerà neanche di fronte al creatore del mondo.

L’incontro con Tze-Yo-Tzuh mostra alla scimmietta l’incommensurabilità del suo potere, ma nello stesso tempo la sua piccolezza:

«“Ero, sono e sarò per sempre. Ho esaminato la tua anima, scimmietta. Conosco i tuoi pensieri più nascosti. Sono al corrente di quando ti siedi e quando sei in piedi, quando viaggi e quando ti riposi. So le tue parole prima ancora che si posino sulla tua lingua. I miei occhi hanno visto tutti i tuoi giorni. […] Non faccio errori scimmietta. Volevo che tu fossi una scimmia e sei una scimmia. Per favore accettalo e smettila con questa idiozia.” “Non mi interessa chi dici di essere, vecchio. Posso ancora batterti”»

A Tze-Yo-Tzuh non rimarrà che sotterrare sotto una montagna di roccia il re Scimmiotto per 500 anni.

Le storie corrono velocemente in avanti. Jin è alle medie e sperimenta tutta una serie di tensioni: il bullismo, la scoperta dell’altro sesso, l’isolamento a cui spesso sono costretti i ragazzi, raggruppati idealmente secondo la loro origine, ma desiderosi di molto di più!

I primi innamoramenti, il desiderio di essere uguale agli altri, di essere desiderabile di essere visto, le prime delusioni, le incomprensioni, i dolori e le frustrazioni che la scuola sa contenere, ma che, in un certo senso, sa amplificare moltissimo.

La terza storia, che appare da subito particolarmente simbolica, è invece pià lenta, quasi stagnante, asfissiante. Subiamo con disgusto, insieme a Danny, i comportamenti calcati di Chin-Kee, vorremmo sotterrarci con lui, per non farci vedere insieme a questa figura che sembra la raffigurazione razzista che avremmo potuto trovare in terribili volantini propagandistici di un altro mondo.

Chin-Kee ride sguaiatamente, fa interventi fuori luogo, è incapace di leggere il contesto e di adeguarvisi, mangia spaghetti con carne di gatto, fa strani rumori, fa la pipì dentro la Coca-Cola…

«“Una lagazza belissima con abondante petto ammelicano! Dovele fasciale piedi e avele figli di Chin-Kee”»

Le tre narrazioni sono caratterizzate anche visivamente: la storia del Re scimmiotto richiama la tradizione dei fumetti dei supereroi, con sequenze bidimensionali e pose tipiche delle arti marziali con cerchi psichedelici che amplificano le mosse di kung fu; realistica e introspettiva la narrazione dedicata a Jin e marcatamente grottesca l’ultima. 

A circa 30 pagine dalla fine un cambiamento tanto desiderato - almeno all’apparenza - avviene e le tre storie in un momento concitato e drammatico si intrecciano, mostrando di essere unite e di far parte, anzi di comporre un’unica storia.

«“Ora che ho rivelato la mia vera forma… forse è tempo che lo faccia anche tu… Jin Wang” “Chi sei?”»

Ciò che queste tre storie mostrano, corrispondono esattamente a tre sguardi sulla propria persona: 1) cosa mi è stato raccontato sulla Cina dalla mia famiglia - rappresentato dal Re scimmiotto e che porta con sé tutta la bellezza la forza e il fascino di una cultura millenaria - 3) cosa il mondo pensa e vede della Cina - rappresentato dal disgustoso cugino Chin-Kee - e in mezzo (2) Jin, la sua storia, i suoi desideri, la sua vita.

Jin, che si vede, si guarda e si sente uguale a tutti gli altri, percepisce con esattezza una linea di demarcazione di differenza che dagli altri invece viene segnata.

«“Potresti non uscire più com Amelia?” “Ti…ti piace?” “Cosa!? No, no […] è una buona amica e voglio assicurarmi che faccia le scelte giuste, sai?”»

«“Ehi, ci deve essele luce un po’ stlana qui fuoli” “Hai ragione! La pelle mi diventa gialla”»

Bello, bellissimo il finale che poteva essere scontato, ma non lo è, un finale in cui queste tre storie trovano un compimento che non è l’esclusione di nessuna delle tre voci, ma che rappresenta la coscienza di essere, una persona unica e non per forza la somma di tre sguardi.

Questo viaggio attraverso la consapevolezza di sé lascia e rimanda la domanda agli adolescenti che devono fare i conti con l’immagine idealizzata, stereotipata e vera di sé e del proprio mondo. Bisogna avere la misericordia di guardare a se stessi e all’unicità che ci caratterizza, con gli occhi di chi ci ama.

«“Sai, Jin, mi sarei risparmiato cinquecento anni di prigionia sotto una montagna di roccia se avessi capito quanto è bello essere una scimmia”»

Un libro coinvolgente molto onesto attratti doloroso, ma anche innervato di ironia e pieno di speranza come è la vita vera. Dai 12-13 anni.

P.S. Mi permetto di aggiungere una notazione personale, da mamma adottiva di bambino cinese. Mi piacerebbe che questo libro arrivasse nelle mani di adolescenti che si trovano a vivere in un luogo diverso dalla luogo in cui sono nati e a cui appartengono, somaticamente, ma vorrei che raggiungesse anche i tanti adulti che li incontrano, questi bambini e questi ragazzi. Perché gli adulti a volte sorvolano su alcuni dettagli che sembrano ininfluenti e che invece alle orecchie di un bambino fanno tanta differenza.

Come l’insegnante di ginnastica che per un anno intero, incapace (?) di pronunciare il nome cinese di mio figlio lo ha chiamato “Hotel” invece di “Utè”: non è comune, ma è importante che venga detto correttamente, perché lui esiste con nome preciso.

Il “white umbrella” che ci teniamo belli stretti, qui in Occidente, ci rende ciechi a volte rispetto ai dolori che causiamo agli altri.

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American born chinese Gene Luen Yang - Omar Martini (traduttore) 240 pagine Anno 2022 Prezzo 19,00€ ISBN 9788867904662 Editore Tunué
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