Lo psicopompo è figura letteraria imperitura che continua a solcare le storie con un carico metaforico che non viene mai meno.
Cosa significa traghettare le anime morte da un mondo all’altro? La quasi totalità dei pensieri umani sul passaggio dalla vita alla morte si è condensata in immagini dove una barca, cullata dalle onde ma inesorabile nel suo incedere, carica coloro che abbandonano la vita per approdare al mondo dell’Aldilà.
Ermes fu tra i primi, ma non possiamo dimenticare Osiride, il Caronte virgiliano e poi dantesco per giungere fino al traghettatore della trilogia delle materie oscure di Pullman.
Frances Hardinge, le cui incursioni nel buio della notte e nell’oscurità hanno preso diverse forme, dipanate in romanzi di fascino sfaccettato, torna sugli scaffali con L’isola dei sussurri, un racconto impreziosito dalle illustrazioni di Emily Gravett, dedicato proprio a un traghettatore di anime, il Passatore, e ai suoi figli.
L’autrice in più casi ha affrontato e raccontato il passaggio attraverso quella fase liminale che tocca luoghi reconditi e oscuri dell’animo umano e che porta a un nuovo stato dell’esistenza. Lo fa anche in questo racconto, attingendo da una tradizione letteraria e fiabesca che modernizza con disinvoltura, pur mantenendo gli archetipi intatti.
I lettori vengono catapultati in medias res al centro di un episodio che segnerà inesorabilmente il cambiamento del giovane protagonista, Milo.
Quando muoiono le persone, a Merlank, è necessario consegnare le scarpe al Passatore. L’ultima traccia di chi ha calcato la terra, su questa terra, sono l’obolo necessario che i morti devono portare con sé per poter attraversare l’ultimo lembo di spiaggia fin sulle rampe della Torre Spezzata, dove «avrebbero trovato il varco per lasciare il mondo».
Ogni scarpa custodisce una storia:
«Un vecchio paio di zoccoli da donna, malridotti ma decorati con deliziosi disegni fatti a mano; due pesanti stivaloni logori e incrostati di fango; scarpe nere con vari segni di riparazioni, ma lucidate con gran cura; un paio di cupolette di ghianda attaccate a una corda, portate al collo da qualcuno troppo povero per comprare delle scarpe, in modo da aver qualcosa da poter consegnare un giorno al Passatore. Infine un paio di scarpette azzurre da ragazza, azzurre e affusolate, con fibbie di ottone e punte appena consumate»
Per riuscire a sopportare il peso della conduzione dei defunti, il Passatore, deve non vedere, deve imporsi di non coinvolgersi, deve distogliere lo sguardo dalle anime che pur vede: come si può vivere a contatto con la morte e portarne il peso, senza che il dolore si mangi tutta la tua vita?
Quel giorno è una giovane quattordicenne ad essere morta, la figlia del più ricco signore di Merlank, ed il dolore della perdita di un figlio è qualcosa che toglie il senno, che fa scegliere l’occulto alla ragione, che fa apparire la violenza come il minore dei mali. Il signore di Merlank viene infatti a reclamare le scarpe della figlia.
«“Mia moglie ha commesso un errore. Mia figlia non è morta, è solo gravemente ammalata. Ho bisogno di riavere le sue scarpe - sono le sue preferite.” “Non c'è nessun errore” disse il padre di Milo, senza tradire alcuna emozione. Non era crudeltà la sua, ma era rigido e inflessibile verso la verità. “La ragazza è arrivata stamattina, a piedi nudi nella nebbia. È pronta per la traversata.” “Sta a me decidere se è pronta o no” disse il Signore. “Ho medici... uomini d'arti illuminate... persone in grado di aiutarla.” “Maghi?” Per la prima volta il padre di Milo si accigliò. “Affidereste l'anima di vostra figlia alle promesse degli occultisti?”»
La riposta è naturalmente sì e, se anche un Passatore vi si oppone, basta uccidere anche lui: è un attimo che smarrisce il lettore, che a poche pagine dall’inizio rimane senza guida.
Ucciso il padre, imprigionato il fratello maggiore, rimane Milo, nascosto e spaventato, solo con i defunti e le loro scarpe. Il dramma assume toni commoventi e drammatici, perché il giovane Milo intuisce di dover portare a termine il compito di suo padre, seppur braccato dal signore di Merlank e dai suoi maghi, ma traghettare i morti significa anche trasportare suo padre verso la fine.
La fuga per mare dentro la Puledra Grigia - sulle personificazioni delle barche potremmo spendere ore di riflessioni! - incomincia nel buio della notte, ma non serenamente, perché se da una parte il padre non può arrendersi alla morte di un figlio, può una giovane nel fiore degli anni accettare di essere morta, di non avere più tempo?
L’autrice chiama a raccolta gli stilemi della fiaba, rinnovandoli in immagini al limite dell’orrorifico: succede così a chiunque decida di ignorare la morte cercando di carpirne i segreti e il potere. I maghi al soldo del signore di Merlank scatenano incantesimi di uccelli senza volto e senza testa, agghiaccianti all’apparenza, e tremendi nel loro non morire, fatture di ossa e di non morti.
Questo lottare sul tratto liminale tra la vita e la morte diventa contenuto e metafora stessa del viaggio della Puledra grigia e del vascello inseguitore: siamo tutti nello spazio di chi non ha più tempo.
La scrittura è limpida e incalzante, l’Hardinge lascia spazio all’indagine dei tumulti dell’animo di Milo che si sente incapace e responsabile, spaventato e deciso…, ma anche ai dialoghi dei personaggi che testimoniano di sé e ad una scorrevole descrizione degli spazi monotoni e metaforici del mare.
Ciò che il protagonista deve mettere a fuoco è la possibilità di conciliare il suo essere Milo, incapace di una freddezza quale quella del padre, e la responsabilità di un compito che è affidato a lui. Specchio di questo subbuglio interiore è Gabrielle, questo il nome della ragazza appena morta, in balia della rabbia, della frustrazione e della paura di aver concluso il viaggio tra i vivi.
«La sagoma indistinta della ragazza abbassò gli occhi. L'aria intorno a lei era tesa di tristezza, rimpianto e qualcos’altro. Imbarazzo, forse? La compassione, quando si aveva a che fare con i Defunti, era un errore, e Milo lo sapeva. Ma non riusciva a non provare dispiacere per la ragazza. Voleva capire. Voleva sentire. E un attimo dopo riuscì a udire davvero la sua voce, stavolta udibile e stridente, come se gli stesse parlando dritto all’orecchio. Non l’avevo mai detto a nessuno. Non le appuntavo mai. Credevo che avrei avuto tempo per migliorarmi. Milo si guardò intorno e si accorse che c’erano altre parole scritte a carbone, su altre parti della barca, e persino sulle parti più basse delle vele. Alcune stavano già cancellandosi, esposte alla spruzzaglia. Gabrielle non aveva scagliato incantesimi e non aveva neanche provato ad appiccare un incendio. Aveva dato fuoco a un cappuccio per ottenere della fuliggine, disperata, poi aveva scritto le sue poesie segrete ovunque aveva potuto, perché non andassero smarrite per sempre»
Quello che si apre in quest’attimo, della tumultuosa traversata verso le sabbie argentee dell’isola della Torre Spezzata, è una nuova consapevolezza: chi passa ha bisogno di lasciare qualcosa di buono di sé.
Eppure accollarsi la responsabilità di questo lascito è qualcosa di pesante che bisogna avere la forza di saper sopportare. Milo scrive tutte le poesie di Gabrielle, capisce che è l’unico modo perché la sua anima abbia pace, ma ognuna delle anime coglie l’occasione per affidare qualcosa di sé al Passatore. Ugualmente Milo capisce che l’unico modo di avere pace è concedersi un ultimo dialogo con l’anima di suo padre:
«“L’hai sempre saputo che non sarei mai stato bravo in questo lavoro.” Troppa immaginazione, disse il padre, aspro. Cerchi sempre di immaginare come si sentono gli altri. E questo ti mette in pericolo. “Lo so” ripeté Milo, cercando di non serrare i denti. “Mi rende debole.” No. La parola gli risuonò nella mente con forza insolita. Essere d'animo gentile non vuol dire essere deboli. Essere gentili in questo mondo brutale significa aggirarsi per un campo di battaglia senza armatura né spada. Essere gentili richiede forza e coraggio. Tu tieni costantemente bassa la guardia, Milo. Temevo che agire così con i Defunti ti avrebbe condotto alla morte. Per questo ti impedivo di navigare con noi. Io non avrei mai rivolto la parola ai Defunti, né chiesto di lasciarmi i loro messaggi. A me non sarebbe mai passata per la mente una cosa del genere. Ma a te... a te sì»
La battaglia non è finita, perché la pace è una scelta. Approdati alla spiaggia una Gabrielle, pacificata e certa, dice addio al padre e corre via.
«Si sentiva più leggera a ogni passo. Il malessere degli ultimi giorni di malattia l'abbandonava, e ogni falcata era più sicura, più forte e agevole. Era più giovane, adesso, tredici anni, dodici, undici. La delusione e la tristezza le caddero via di dosso; e così anche il rimpianto. La torre si ergeva ritta dinanzi a lei, ma non sembrava più spezzata o spaventosa. Quella non era una fine, comprese, era un luogo da esplorare. E mentre correva verso la porta e l'attraversava, rideva esaltata come una bimba»
Ma bisogna essere capaci di lasciare andare e c’è chi non ci riesce.
Tornato a casa, il giovane Passatore ha la pace di chi ha scoperto il suo talento, consapevole della forza necessaria per onorarlo.