Che cos’è la natura? Che rapporti abbiamo con la natura? Il tema ricorre e si rincorre in questi tempi (io stessa ne ho parlato recentemente con un terzetto proposto per la giornata della Terra, Earthday) e ognuno offre un tono, un timbro, un discorso differente.
Questa diversità appare lampante in due recentissime uscite per il medesimo editore, Camelozampa, che affrontano la questione in modo diametralmente opposto, almeno all’apparenza.
Introduce il discorso con un neutralissimo titolo, La natura, il testo di Emma Adbåge, che abbiamo conosciuto e amato con La buca.
Eppure il piglio dissacrante – che abbiamo amato – caratterizza immediatamente la narrazione che appare tutt’altro che neutra, anzi a tratti stonante e certamente provocatoria. Si rimane immediatamente colpiti dalla schiettezza del tono, che per la semplicità caricata attribuiamo subito ad un bambino:
«Questo è un paesino in cui vivono persone di tutti i tipi. Ovviamente ci siamo noi bambini, e adulti di età diverse. Poi abbiamo anche degli animali domestici. Cani e roba del genere».
Le figure sgraziate, dall’espressioni calcate e dai gesti quasi iperbolici (stupitissimi davanti ai funghi, contrariatissimi mentre spalano la neve, entusiasti davanti ai fiori, dolentissimi mentre strappano le erbacce…), ci mostrano poi la falsità di questi adulti che già in parte ci erano apparsi antipatici nella loro lotta alla “buca”. Innocenti per niente, ipocriti invece.
Il testo segue le stagioni e ci racconta dell’entusiasmo patinato di fronte alla natura che vediamo su Instagram, tazze calde alla mano, e le seccature micidiali che minano il presunto amore per la stessa (spalare la neve, spazzare le foglie morte, strappare le erbacce…). Ad ogni minima richiesta di sforzo, gli adulti sembrano trovare soluzioni definitive: le foglie danno fastidio? Abbattiamo il tiglio! Le rose canine graffiano le mani? Una bella colata di asfalto davanti a casa e abbiamo risolto!
Gli adulti sembrano inconsapevoli delle conseguenze che ogni azione comporta, ottusi e ciechi si affidano a soluzioni immediate che smentiscono la loro passione e che li rendono ridicolmente incoerenti, sottointendendo, poi, che la natura sia l’ospite di un mondo antropico: ma è così?
La fine non può che essere una catastrofe che esplode in un catartico contraddittorio: in un mondo che brucia tra ghiaia e asfalto, il luogo ideale da abitare è un’auto chiusa con l’aria condizionata.
«E più in là, un po’ fuori dalla Natura, c’è il nostro paesino. Ma più che altro è fatto di qualche casa e un po’ d’asfalto e roba del genere»
Il tono bambinesco, che con perfezione aveva descritto un’avventura da bambini, credo stoni nella descrizione di situazioni che sono percepite come seccature e che diventano implicite e pesanti accuse rivolte agli adulti. La lucidità che si percepisce nel criticare/descrivere le singole azioni rivelano infatti una coscienza lungimirante e sottile che non è propria di un narratore bambino.
Una critica molto lucida – con il tono sbagliato a mio parere – e schietta che mette alle strette gli adulti che forse amano la natura più in teoria che in pratica. Nessuno ne aveva parlato così, svelando gli scheletri che forse molti nascondono: siamo disposti ad abbandonare abitudini pretenziose in cambio di un impegno rispettoso nei confronti della natura? Un libro molto originale.
L’erbaccia di Quentin Blake, invece, si apre su un titolo marcato che già pare un giudizio: erbaccia, non erba.
I protagonisti invece appaiono candidi e innocenti nella loro calma e attesa pacifica (anche se Octavia, il loro merlo indiano è ben chiuso in una minuscola gabbietta…).
In una sorta di catastrofe distopica, come non si sa, questa amabile famiglia si trova all’interno di una buca, grigia e opaca, quasi immersa in uno smog asfissiante, senza nient’altro che le loro persone. La storia si apre così:
«Il mondo stava diventando secco e arido e sempre più difficile da abitare. FInché un giorno, senza alcun preavviso, nella terra si aprì una profonda spaccatura e la famiglia Dolciprati ci si ritrovò sul fondo».
La famiglia perfetta decide di liberare Octavia, la quale per una gratitudine quasi ingiustificata ritorna, novella colomba di Noè, con un seme.
L’ipocrisia degli adulti si rivela nuovamente grazie alla parole della madre che con con quegli occhiali potevamo immaginarla almeno una persona intelligente:
«Un paio di minuti dopo spuntò una piantina verde. “Non servirà a un granché” commentò la signora Dolciprati. “È solo un’erbaccia”».
E invece quella pianta verde in quella buca grigia cresce vigorosa, come se quel seme fosse stato direttamente rubato a Giacomino “del fagiolo magico”. La famiglia intravede una via di fuga e incomincia ad arrampicarsi, o meglio, imbeccata da Octavia, che parla fluentemente, viene esortata a salire. L’ottusità un po’ cieca e certamente poco indipendente degli esseri umani si traduce in un atteggiamento pretenzioso e così poco grato che, pur nella levità delle immagini, infastidisce. Il signor Dolciprati, ad esempio, si augura che ci sarà qualcosa da mangiare: la pianta generosa offre i suoi frutti! La signora Dolciprati scivola: la pianta con i suoi viticci l’accoglie. La scalata continua fino all’uscita della voragine, in un mondo completamente verde, riconquistato, si spera dalla natura.
«“Octavia” disse Lily “tu sapevi che sarebbe successo tutto questo?” Ma per una volta Octavia non disse nulla”»
I due testi in modo molto diverso raccontano ciò che, in una metafora lungimirante, aveva già raccontato Shel Silverstein con il suo L’albero: la natura, che è un sistema vivente e pulsante, non smette di dare, cambiare, adattarsi, trasformarsi… l’uomo saprà essere grato e rispettoso di questo mondo che lo accoglie?