Gli oggetti sono evocativi, cioè hanno la capacità di custodire emozioni e ricordi e riportarli in vita, se le mani e gli occhi che li hanno sfiorati, li hanno visti veramente e li hanno vissuti.
Quando ero piccola, trascorrevo parte dell’estate in una casa fuori Milano, con i nonni e i miei fratelli: era una casa di campagna e ancora manteneva una certa selvatichezza antica anche se oggi è solo un piccolo borgo suburbano.
Era una vecchia casa di corte con la cucina economica e le scale esterne per raggiungere le camere da letto, aveva i bagni nel cortile e una stalla dove d’estate cuocevamo la passata di pomodoro e imbottigliavamo il vino. Gli armadi e i mobiletti raccoglievano tutta una serie di oggetti, finiti là per chissà quale strada: bomboniere, spille, tappi, scatole di latta, nacchere, cappelli di ogni foggia, guanti spaiati, nappe, ritagli di giornale… oggetti senza apparente valore che allora i miei nonni, con la sapienza di chi è abituato ad arrangiarsi in ogni situazione, avevano conservato con l’idea che sarebbero tornati utili.
La vita di quelle settimane ha lasciato in me ricordi indelebili di libertà assoluta: potevo scegliere ogni mattina come vestirmi, pescando da cassetti con vecchi vestiti dismessi, i balconi interni che davano sul cortile erano come dei grandi parapetti di un teatro su cui si poteva passare ore seduti sulla sedia reclinabile a leggere vecchi Topolini, a contare le rondini o a studiare il cane Briciola che correva sulla ghiaia.
Per non parlare poi dei tesori custoditi nei cassetti: ninnoli, penne, matite, spago, statuette del presepe, calzini spaiati, mollette, bottoni, fili di lana…piccoli ecosistemi che si trasformavano sotto gli occhi miei e di mia sorella in impensabili universi di gioco.
Gli oggetti si trasformavano in ponti tra ricordi di vita dei miei nonni e nuovi ricordi per me, che quegli oggetti incontravo di nuovo.
Questa esperienza di grande stupore e “ponti” familiari l’ho ritrovata raccontata con esattezza nelle pagine de L’estate più bella di Delphine Perret, autrice che mi aveva colpito per il discorso artistico condotto in modo originale a partire dalla percezione dell’occhio, e che torna sugli scaffali con un album di ricordi estivi fermati come istantanee grazie ad acquarelli e schizzi delicati ed essenziali.
«Sei pronto?»
Un bambino e la sua mamma partono dalla città e si addentrano in una campagna gialla e verde, tra cieli azzurri e montagne sempre più grigie e ferrose fino ad arrivare nella casa di campagna dei nonni, dedurremo poi.
Le pagine riportano solo i dialoghi della mamma e del suo bambino o il silenzio; nessuna didascalia, nessuna spiegazione, un invito invece ad immergersi nelle immagini correlate, cercando in loro il significato di quelle parole.
Le caramelle ritrovate in un vasetto di marmellata dimenticate sopra un mobile, la scarpiera piena di stivali dalle misure più disparate, giacche e cappotti utilizzati di forme e misure diverse…
Le pagine raccolgono frammenti di dialoghi che, incontrando quegli oggetti nascono:
«“Quelli gialli?” “Troppo piccoli.” “E quelli grandi, quelli di Fanette? Provali.”“Vanno bene questi verdi, sono un po’ bucati, ma non è un problema”»
Le collezioni estive “nuove” si intrecciano alle collezioni delle persone e dei bambini che quella casa hanno abitato. Mi è venuto in mente che mia nonna collezionava le carte colorate che avvolgevano le arance, nel libro invece troviamo collezioni di tappi di sughero.
E poi i rumori: quanto più queste case di campagna sono isolate tanto più danno la possibilità di godere dei rumori naturali!
«“Ascolta!” “Cos’è?” “Un picchio verde”»
La libertà di dimenticare vestiti, felpe, cappelli in un mondo che è il proprio universo e che si abita un po’ egoisticamente, lasciando tracce di sé e del proprio passaggio.
E chi non ha imparato a fischiare con i fili d’erba, d’estate?
Le giornate dei protagonisti sono animate da scavi, raccolta di rami, esplorazioni di soffitte, allestimento di opere teatrali, osservazione di insetti… il tempo vuoto è anche l’occasione di cimentarsi in grandi imprese come imparare ad allacciarsi le scarpe (più tavole senza parole ci guideranno in questa conquista!). E poi osservare le cavallette e i cervi volanti, spaventarsi per i ragni che escono timidi dai pertugi, farsi male con le schegge di legno, accarezzando diverse superfici, scoprire foto vecchie e giochi che altrove non avrebbero avuto nessun fascino, ma essendo i soli diventano i grandi tesori dell’estate. Raccogliere i fiori e lasciarli seccare, raccogliere le pigne e dimenticarsele in giro, mangiare le more, fare merenda, lasciare la crosta del pane, dimenticarsi i biscotti nel prato, cercare nei cassetti guanti dimenticati e trovarne. solo spaiati, sentire i passi della volpe e giocare a travestirsi dirsi con i vestiti dei nonni.
«“Si può mangiare il gelato anche quando piove?” “Sì, si può”»
«“Bisogna apparecchiare la tavola.” “Ma io non ho ancora finito!” “Sposta un po’ i tuoi cowboy, altrimenti ci metto un piatto sopra”»
E infine le persone, perché i ricordi si legano indissolubilmente ad attimi vissuti con qualcuno, ricordi di chi magari ha conosciuto le persone che hanno abitato quei luoghi e le persone nuove, che arrivano a travolgere e stravolgere tutto, - i cugini sono campioni in questo!
«“Sai una cosa?” “Cosa?” “È stata l’estate più bella del mondo”»
Il libro si presta ad essere letto da lettori trasversali, dai piccoli lettori incuriositi nel riconoscere tante esperienze che probabilmente condividono agli adulti che collegheranno a quegli stessi oggetti, ricordi lontani.