In questi mesi - che ho dedicato allo studio dei fumetti - mi sono imbattuta in Barnaby di Crockett Johnson, una striscia a fumetti che l’artista statunitense disegnò e sceneggiò tra il 1942 e il 1945: una storia sognante che ha per protagonista un bambino e il suo “Fato padrino”, una sorta di folletto grassottello che nessun altro riesce a vedere.
Questa relazione forte ed esclusiva mi ha fatto guardare in modo più consapevole alla scrittura di Johnson e mi ha fatto apprezzare più profondamente la lettura di Ellen e il leone, una raccolta di 12 racconti al cui centro troviamo una bambina, Ellen, alle prese con la sua quotidianità di bambina di 4-5 anni, affiancata dalla compagnia di un fedele amico, il suo pupazzo leone.
Quella che, nella serie di Harold e la matita viola, si configurava come immaginazione, come mondo magico dalle infinite possibilità che i bambini (personificati da Harold) varcano nella costruzione (mentale) dei loro spazi personali, in questa raccolta narrativa si cala nella realtà delle relazioni e della contingenza reale.
Il rapporto di fiducia tra Barnaby e il suo “fato padrino” è il ponte che permette all’immaginazione d Harold di prendere carne e pezze nella relazione di Ellen con il suo pupazzo: l’immaginazione diventa il modo di muoversi e guardare il mondo reale.
I 12 racconti danno voce ad Ellen, ma anche al suo leone in un mondo loro proprio, da cui sono estranei tutti gli adulti: è un mondo che si fa reale in divani e giocattoli e rende tangibile quel mondo immaginifico e mentale creato dal pastello viola di Harold.
I racconti sono basati sul dialogo e rendono espliciti, in modo esemplare, i pensieri, le paure, le sensazioni, le intuizioni che animano la mente e il cuore dei bambini.
Bellissimo ed significativo l’episodio in cui la piccola Ellen si sveglia di notte insieme al leone e decide di andare a prendere un bicchiere d’acqua. La paura però si fa sentire e solo la possibilità che oltre i due occhi di Ellen ci siano altri due occhi che possano controllare l’oscurità alle sue spalle le permettono di arrivare incolume alla cucina.
«“I miei sono bottoni” disse lui. “Sono cuciti. Non ci vedo molto bene al buio.” “Nessuno ci vede molto bene al buio” bisbigliò Ellen uscendo dal letto, “ma le cose spaventose non lo sanno”. “Come fai a sapere che non lo sanno?” chiese il leone. “So tutto di loro” rispose Ellen. “Dopotutto le ho inventate io, no?” “Ah!” esclamò il leone. “L’avevo detto, io, che non esistevano”. “Ma certo che esistono” disse Ellen. “Te l’ho appena detto: le ho inventate io”»
E così nel buio quattro occhi spalancati vincono la paura e si dirigono verso la cucina.
Questo mondo costruito nel dialogo tra bambini è ponte a metà tra la consapevolezza dell’immaginifico e la chiara percezione esperienziale che ciò che (pur) si è inventato è reale. È la relazione tra Ellen e il leone che permette di vivere in questa terra di mezzo con leggerezza e disinvoltura: è così che il leone può viaggiare fino in Arabia, accucciato sopra il trenino elettrico, è grazie a quel legame che Ellen può affrontare i mostri del buio, è grazie alle zone grigie di magia che impregnano il reale che Ellen può scalare con il leone un vetta altissima e può immaginare di diventare una tigre da grande e pensare a come ci si senta tristi senza una mamma.
Il leone permette ad Ellen, attraverso il dialogo, un confronto all’interno del suo sguardo, accettando l’esplicitazione del proprio dolore e delle proprie preoccupazioni, senza giudizi. Intensi e unici, in questo senso, gli sguardi che la bambina e il suo amico si scambiano in tutte le illustrazioni!
Credo che queste avventure siano molto significative, sebbene per nulla semplici, data la complessità di pensieri che si intrecciano nelle parole e nei dialoghi.
Gli scorci offerti ci fanno pensare a bambini piccoli (3-4 anni), ma credo che per una consapevolezza e un godimento profondo di queste pagine, sarebbe meglio aspettare i 5-6 anni.
Un bellissimo scorcio sullo sguardo dei bambini che è magico e realissimo.