Il libro di oggi, Bei cipressetti, cipressetti miei. Poesie per bambini vecchi e nuovi, è come quelle tovaglie che le nonne tirano fuori per le grandi occasioni, bianche, di cotone ruvido, di un’eleganza essenziale che non passa mai di moda e con un fascino che colpisce aldilà di qualsiasi generazione e di ogni gusto.
Crocetti editore attraverso anche la voce dell’editore stesso, Nicola Cinquetti, che è curatore di questa raccolta poetica, confeziona in un elegante libro bianco, senza altro che i testi poetici, una raccolta di rime che pescano tra le voci della contemporaneità e quelle del passato.
Il filo che unisce le prime alle seconde è l’orizzonte dell’infanzia, che comprende quelle poesie che, magari senza una riflessione precisa, erano proposte a scuola e che erano memorizzate dagli adulti di oggi, tra i quali anche io mi enumero!
La raccolta è limpida, ogni pagina è semplicemente bianca, con l’autore e i riferimenti cronologici a cui seguono un numero variabile di testi.
L’ordine di apparizione è alfabetico e parte da Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi e Donatella Bisutti fino a raggiungere Bruno Tognolini, Silvia Vecchini e Giacomo Zanella per un totale di 69 poeti, 144 poesie e quasi 250 anni di storia poetica.
Pagina dopo pagina si passa dal Settecento alla contemporaneità con salti che possono apparire pindarici ma che in realtà testimoniano un robusto e coerente tessuto letterario. Può, all’inizio, colpire l’avvicendarsi de L’agnello di Sergio Corazzini a BEE di Nicoletta Costa, ma se accetterete la sfida di una lettura integrale, sarà evidente alle orecchie di tutti come i testi più ludici e quelli più rigorosamente descrittivi o lirici appartengano allo stesso universo letterario e dell’infanzia.
«Gli occhioni dolorosi
volge senza belare
e pare che non osi
perdono domandare.
Oh vorrebbe tornare
ai suoi prati odorosi
sotto gli alberi ombrosi
tra i fiori a pascolare!
Oh, il soavissimo incanto
delle notti stellate
odorose di foglie...
Oh dolcezze passate!...
E adesso quanto pianto
che nessuno raccoglie!…»
«Tutte le pecore della valle
si sono messe le scarpe gialle»
Nella bellissima introduzione, Vivian Lamarque, mette in evidenza questo legame tra testi multiformi che è reso possibile dalla voce, dall’ascolto e dalla “recitazione” («“me la provi me la provi?”»), che incideva nell’immaginario dei bambini sia che si trattasse di un «“deh”», di un «“mira il popolo, o bella Signora”» o di un «“Qui comincia l’avventura del signor Bonaventura”».
Il lessico e la sintassi più antichi, oggi come allora, si imprimono nell’immaginazione dei bambini, invitandoli ad un esercizio di interrogazione (ma cosa vorrà mai dire?!) e di custodia di parole preziose.
La postfazione del’editore-curatore amplia ancora di più il ruolo della parola e contestualizzare con esattezza quella che dovrebbe essere l’esperienza di lettura di questa raccolta:
«È dunque un libro che si vorrebbe in primo luogo usato e usato in compagnia: da leggere insieme fra grandi e piccoli, da leggere magari a voce alta, da mandare, perché no, a memoria, per costituire il primo nucleo di un prezioso tesoro da affidare al ricordo»
Sono, dunque, queste poesie che bisognerebbe leggere insieme a tavola, in contesti dove la famiglia sia riunita, piccoli e grandi insieme. L’invito è a istituire una prassi di lettura condivisa ad alta voce e di ascolto corale, che non ha bisogno di immagini, non ha bisogno paradossalmente di pagine, non ha bisogno di intimità, ma che celebra la socialità, la relazione, i diversi stati d’animo che si accostano in un attimo e che proprio per questa multiformità rendono unici e imprevedibili quei momenti insieme (mi ha ricordato con esattezza lo spirito e la gioia di qualche giorno fa, al pranzo di Pasqua!).
In un mondo scolastico che ha messo al centro altre priorità che hanno, forse, superato l’esigenza di imparare a memoria, questa raccolta replica, mostrando la bellezza di avere un linguaggio poetico familiare, come un lessico familiare.
Io, ad esempio, ho ritrovato quell’«albero a cui tendevi la pargoletta mano» che è rimasto nella mia mente e nel mio cuore insieme a quella «donzelletta che vien dalla campagna». Quei versi mi riportano nella mia scuola elementare, quando suor Gianna ci interrogava, in piedi nella penombra dei pomeriggi quasi estivi.
L’assenza di immagini ribadisce la forza illustrativa della parola poetica e mette al centro e di nuovo la forza della parola che, se ascoltata, recitata e raccontata, ha il potere di contaminare l’intimo di quello che si è e anche il potere magico di far accadere le cose (la poesia di Bulfaro fa andare via il mal di gola, ad esempio!)
In fondo, ci ricorda Patrizia Gioia:
«Come fare a dire le cose
se non riesci a trovare la parole…?»
ma che bello! grazie di aver condiviso con me questo ricordo e questo pensiero: lo condivo totalmente!
Mi permetto questo commento personale. Sono cresciuta in una famiglia strana, dove i viaggi in macchina erano scanditi da Pascoli e Carducci, d’ Annunzio, Foscolo e Cardarelli. Sono stata una bambina famelica di poesie che ho poi cercato e amato da sola. So a memoria parecchie poesie senza averle mai studiate, solo per averle consumate come i miei coetanei sentivano le canzoni alla radio. Le poesie mi accompagnano anche ora, mi si aprono davanti nei momenti di vuoto: l’attacco di una strofa, il finale. Sono una privilegiata. Nelle loro strofe sono custodite voci di nonne scomparse, riti corali consumati in famiglia in luminosi attimi di ispirazione. Per me recitare i cipressetti è un’ esperienza estetica meravigliosa, ma è anche un’ esperienza affettiva. Quei versi sono ‘casa mia’ , la mia infanzia. Trovo meravigliosi e coraggioso proporre un libro simile. Grazie