Ogni anno il New York Times compila una lista dei più bei Picture Books usciti durante l’anno. La testata si occupa con attenzione e pertinenza di letteratura per l’infanzia e le sue scelte non sono mai improvvisate. Tra i 9 titoli scelti da Jennifer Krauss quest’anno spiccano 2 titoli già presenti sugli scaffali italiani e altri 7 albi molto belli. Oggi vi presento i 4 libri che più mi hanno colpito di più.
Il capanno è la storia sospesa di un viaggio estivo al di là della porta di casa, come tanti ne abbiamo visti e come tanti ci hanno incantato. Marie Dorléans gioca con una narrazione essenziale, elusiva che dialoga continuamente con la natura, tra grande e piccolo, tra aperto e chiuso, in un raccoglimento ben esemplificato dai volti dei tre protagonisti che appaiono per tutta la prima parte ad occhi chiusi.
«È primavera! Ogni giorno la natura ci chiama per andare a giocare all’aperto»
I tre bambini si preparano. Il contrasto iniziale tra l’interno della casa e la strada sterrata che sembra portare verso l’infinito dalla porta spalancata fino ai profili delle montagne è quasi vertiginoso.
I bambini corrono, il vento agita i panni stesi, c’è una sorta di elettricità che sospinge i ragazzi in avanti. Cantano, giocano, parlano, ricordano, ognuno è ancora dentro di sé, felicemente in sé.
I percorsi che si snodano autonomi in mezzo all’erba alta arieggiano la tavola e donano una sensazione ampia di respiro, una boccata d’ossigeno. La palette cromatica che ricorda le xilografie giapponesi ha un’energia potente, ma per nulla prepotente.
«Procediamo a caso, completamente immersi nell’erba alta. Quanto ci piace camminare così!»
I capelli scuri dei tre protagonisti e i ciuffi d’erba quasi non si distinguono… la tempesta unisce i ragazzi. Il cielo si muove nel luminoso bianco che squarcia le volute grigie-blu, le tavole si illuminano.
Si scatena una bufera che ha qualcosa di sorprendente e di innaturale, i bambini vengono quasi spazzati via dalla forza di un vento che armonizza il movimento del cielo al movimento dell’erba.
«Rimaniamo immobili, come un’unica statua di pietra, e resistiamo al putiferio»
Poi tutto si calma e gli occhi dei bambini si spalancano per la prima volta.
«Guardate!»
Quello che si ricompone è un terzetto di sopravvissuti che cede l’indipendenza di percorsi autonomi ad un abbraccio che conforta e sostiene fino al rifugio segreto, il loro capanno del bosco, dove finalmente gli occhi possono richiudersi di nuovo per riassaporare una dimensione interiore che per un attimo ha lasciato entrare in sé il cielo.
Quanto può un capanno, una giornata, un’amicizia riempire gli occhi di un bambino?
Simile per tematiche ma molto lontano per l’impostazione del testo e tipologia illustrativa è Emile and the field, un testo in rima del poeta americano Kevin Young illustrato da Chioma Ebinama.
Lo stile illustrativo, già dai risguardi, ci sposta dal cielo nuvoloso di Marie Dorléans, ai colori caldi e accoglienti, leggeri e acquerellati di un campo.
«There was a boy named Emile
who fell in love with a field»
Il verde, che aveva accolto e circondato i tre amici del capanno, mostra invece nello scorrere delle pagine di questo libro una gamma cromatica vasta e particolareggiata che va dagli azzurri ai gialli, dai rossi ai rosa, dai verdi agli arancioni e poi beige, marroni, rossi, grigi, neri, bianchi…
Lo scorrere delle stagioni nel campo di Emile racconta di un luogo vivo che muta e cambia, un essere vivente con cui il bambino intreccia un’amicizia fatta di giochi e condivisione.
Ad un certo punto il bambino si chiede cosa il campo conosca, preoccupato che poco sappia… eppure il campo sembra rispondere, offrendo ad Emile fiori e bombi che lo guidano a scoprire luoghi sconosciuti…
«One day it began asking
if the field knew what all it was missing
it didn’t know the sea
or skyscrapers
it didn’t know airplanes
(up close at least)»
Arriva l’inverno ed Emil, a differenza dei tanti bambini che amano l’inverno, odia questa stagione perché ricopre il suo campo di neve e di bambini che lo solcano come se fosse proprio.
L’idea che il papà suggerisce ad Emile racconta, però, di un altro volto ancora del campo, del suo campo: la natura come creatura vivente non può appartenere a nessuno, neanche ad Emile.
La vita ha tempo eterno che travalica quello degli uomini, bisogna ribaltare la prospettiva: invece di pensare di possedere la natura, bisogna sentirsi accolti e grati di ciò che la natura ci offre.
Le illustrazioni di Ebinama mi sono piaciute nella scelta di mantenere evidente la trama del supporto utilizzato, che rende mosse tutte le illustrazioni. Gli acquarelli si muovono variamente sulle superfici e con una sensibilità cromatica che investe il cielo la terra in una continuità avvolgente.
Davvero curiosissimo nel suo genere, A is for Bee declina in modo originale e quasi spiazzante il tema dell’alfabeto animale che è un caposaldo nello scaffale per i bambini. Grazie infatti ad un’allegra confusione, questo libro allontana ogni finalità educativa per far spazio invece la percezione della bellezza con cui le diverse lingue chiamano gli animali.
«A is for bee
B is for monkey»
Ovvero ciò che noi chiamiamo “bee” incomincia con A in altre parti del mondo.
‘B sta per scimmia’ sostituisce quella che sarebbe stato “M is for monkey”.
Il libro avanza così, con un gioco che sbaraglia l’elementare associazione della lettera dell’alfabeto con l’iniziale a cui siamo abituati. Ecco che, dunque, ciò che per il mondo anglofono è Bee per i turchi è ari, per i portoghesi è abelha, nella lingua dei nativi Ojibwee è aamoo, in igbo, lingua africana, è anū.
B sta per scimmia, C sta per pappagallo…
«D is for turtle – E is for snail…»
Il gioco insomma continua in questo modo, secondo la progressione alfabetica. L’anglocentrismo (che è proprio di tutte le lingue, anche con ragioni necessarie!) lascia spazio ad una nuova geografia che contempla 68 lingue, dalle lingue più comuni come il francese, il tedesco, l’italiano, il portoghese, lo spagnolo, a lingue che appartengono a piccole comunità linguistiche o a grandi gruppi linguistici ma poco considerati: c’è il balinese, il basco, il maori, l’islandese, il chichewa, il tagalog… Tutte ascoltabili, nella pronuncia del nome scelto, tramite lettura di qrcode.
Le illustrazioni di Elena Heck sono di forte impatto: create tramite la tecnica dello scratchboard, impongono il carattere forte del nero che dialoga con i colori, introdotti digitalmente in modo efficace. Gli animali sono ritratti o in pose degne di una galleria d’arte o colti in momenti più dinamici nel loro contesto di vita.
Bella l’attenzione al lettering, disegnato appositamente da Jon Gray.
Il libro crea un’allegra confusione, forse poco gestibile da un bambino a livello di comprensione, però credo che sia un interessantissimo esperimento riguardante le relazioni delle lingue (si possono fare delle interessanti considerazioni storiche sulla parentela e la vicinanza di alcuni termini…), e anche l’occasione di un puro gioco per sdrammatizzare un po’ l’egocentrismo e per far spazio a tante altre lingue che animano il mondo.
Se siete curiosi anche degli altri titoli selezionati, eccoli! [qui trovate l’articolo americano, che però è leggibile interamente solo a pagamento]